si dovettero attendere gli anni Novanta perché il writing metropolitano si diffondesse pienamente, e in maniera matura, anche in Italia. Ma nel frattempo le cose erano cambiate e questa nuova strada aperta portò presto a un bivio: da una parte il mondo del writing e dei graffiti, quello che abbiamo imparato a conoscere in queste pagine, con il suo linguaggio, le sue “crews”, i suoi luoghi e la sua indomita ricerca stilistica; dall’altra, oltre il muro, un movimento nuovo, in parte connesso al writing e ai graffiti, ma per molti altri aspetti sostanzialmente e profondamente diverso: la Street Art, il movimento artistico oggi più capillarmente diffuso al mondo, dalla natura in costante evoluzione e ridefinizione, i cui frutti hanno una vita spesso effimera, precaria, evanescente, sebbene non manchino opere più durevoli, talvolta frutto di commissioni pubbliche. Rispetto al writing, nella Street Art mutano i riferimenti culturali. Mutano le tecniche. Muta lo stile. Il rapporto tra legale e illegale. Le dimensioni. Il concetto di unicità dell’opera. La percezione da parte dell’arte ufficiale e, in molti casi, anche da parte del passante, che non considera più l’intervento su muro solo un atto vandalico a prescindere. Oltre alla cultura dei writers, alla nascita della Street Art contribuirono anche altre culture marginali, da quella degli skaters alle pratiche neo-situazioniste del “subvertising” e dei “culture jammers”, ovvero di gruppi come quello legato alla rivista canadese “Adbusters” che, anche tramite interventi urbani, pratica una gioiosa guerriglia contro lo strapotere iconografico delle multinazionali. E ancora hanno peso l’universo segnico dei tatuaggi, i centri sociali occupati, il cyberpunk, i rave, la cultura hip-hop, la stampa marginale delle fanzines e del fumetto underground… tutte quelle pratiche dell’immaginario “off” che Carlo Branzaglia ha definito «iconografie del marginale».
