caro Gianni, ho deciso di circoscrivere questa intervista al periodo tra il 1968, anno in cui realizzi la trilogia Carabinieri-Milite
ignoto-Grazia e Giustizia, e il 1973, anno in cui sei tra coloro che sottoscrivono a Milano la fondazione della Global Tools, contro-scuola di
design e architettura. Mi avevi raccontato di aver smesso di frequentare con assiduità i corsi presso la facoltà di Architettura di Firenze già al
secondo anno e che, da studente fuori sede, la tua scuola di architettura furono l’ambiente delle gallerie d’arte e le conversazioni con gli
artisti della tua generazione. Fu questo il momento in cui maturasti la convinzione che le operazioni di questi ultimi, fortemente concettuali e
di “azzeramento” linguistico, si sostituissero all’assenza degli architetti nel proporre linguaggi visivi tesi alla trasformazione dello spazio
fisico e naturale, nonché necessari a una revisione delle origini teoriche e operative della disciplina. Su queste premesse hai intrapreso un
percorso di design sperimentale legato a un’antiretorica del progetto che si traduce nel contesto urbano e - attraverso il coinvolgimento del
pubblico e di altri attori dell’arte e della cultura - in un attacco al contempo intransigente ed estremamente evocativo alla retorica
dell’apparato, all’immagine congelata e cinica di Stato, in un periodo di forti tensioni e di tragici accadimenti sociopolitici. All’epoca si
parlava di “discontinuità”. Fissano questo particolare momento le parole-oggetto fuori scala in cartone ondulato che abbandoni o affidi all’usura
del tempo, degli agenti atmosferici o all’arbitrio delle persone (Carabinieri-Milite ignoto-Grazia e Giustizia); o i panni stesi ad asciugare in
piazza a Como (Laundry, 1969) durante la prima edizione di Campo urbano, e che ricordano da vicino certe forme di espressione e di dissenso
popolare nell’Italia preunitaria.
Sono d’accordo su ciò che dici di quegli anni. C’era anche un’insoddisfazione profonda per il non poter praticare il linguaggio che stavo
imparando. A scuola s’immaginavano spazi ma li si rappresentavano in scala ridotta e fu per questa ragione che il mio loft in affitto divenne per me
una palestra, una maniera di costruire volumi, di occupare spazi in scala reale. Era il mio modo di sapere se avevo imparato qualcosa di quella
lingua e se questa riuscisse a comunicare il mio pensiero. La “discontinuità” fu una definizione di Lapo Binazzi (tra i fondatori del gruppo UFO);
per me non era importante essere “diverso” dal passato, ma imparare a interpretare e a trascrivere il presente anche in termini di progetto.
quasi inconsapevolmente
Gli anni che vanno dal 1970 al 1972 sono invece quelli in cui la circolazione del tuo lavoro su riviste come “Domus” suscita una diffusa attenzione e l’invito come artist-in-residence al Minneapolis College of Art and Design prima, e alla University of Utah di Salt Lake City l’anno successivo dove - lontano dalle dinamiche conservatrici del sistema accademico italiano - intraprendi un percorso di attività didattica, di critica e di confronto internazionale. L’attacco ai modelli educativi istituzionali e più in generale al ruolo della classe borghese nel processo di trasformazione culturale e sociale sono al centro di un’ecologia dell’architettura in cui seminari-happening e operazioni dissacranti realizzate assieme agli studenti dei tuoi workshop si traducono tra le altre nel congelamento di un ex edificio scolastico di ignota destinazione d’uso (Ice House I, 1970); in un pugno di studenti che attraversa la città e si dirige idealmente verso un’autonomia dell’apprendimento “indossando” sedie su cui sedersi ovunque secondo propria necessità (Wearable Chairs, 1971); oppure nella casa piccolo borghese ricoperta di creta spalmata a mano (Clay House, 1972) che nei tuoi intenti doveva risultare «come ricoperta di merda». A dire la verità io dicevo che quella casa borghese veniva ricoperta di creta color..., un po’ come quando da bambini piccolissimi si gioca con la propria cacca spalmandola in giro, fino a quando la mamma non interviene... È un modo di esprimere un dissenso, ma anche per dirlo nella lingua più spontanea, quasi inconsapevolmente. Ho sempre pensato e detto che si debba costantemente coltivare una parte del proprio cervello “a verde”, intendendo anche che si debba mantenere un filo diretto, nella propria vita, con la propria infanzia, la propria spontanea maniera di esprimersi. Una delle mie sorelle scopre sempre nei miei lavori elementi di giochi che inventavamo da bambini: così è successo per Midwestern Ocean, per Ombra, per La mia casa all’Elba.
Nel 1972 realizzi inoltre L’an-architetto, libro chiaramente influenzato dalle esperienze e contaminazioni intellettuali avute in quegli ultimi anni tra l’Italia e gli Stati Uniti. Parte integrante della “tua architettura”, L’an-architetto è al contempo un flusso di coscienza, un diario e una forma di poesia visiva che costruisce a suo modo un’architettura fuori dall’architettura, e per questo anarchica, in cui coaguli una serie di riflessioni che divengono “statement” attraverso la non specificità del medium adottato.
È vero. L’an-architetto è stato il mio manifesto, con tutti gli inserimenti possibili, intenzionalmente tesi a disequilibrare la scrittura di un manifesto tradizionale: a un certo punto della stesura (realizzata di getto in circa due giorni e mezzo) mi interrompo e inizio a scrivere i nomi delle persone ricordate a memoria, di tutte le persone conosciute fino a quel momento, e ancora, la trascrizione del Padre nostro in Althochdeutsch, il tedesco del Trecento che mi era stato insegnato da ragazzino e che ancora ricordo a memoria malgrado il tentativo di liberarmene mentre scrivevo. E poi, gli oltre trenta caratteri tipografici diversi con cui cercavo di sottolineare il testo come se fosse recitato, o l’area occupata dagli scritti, un quadrato che si ripete poi in fondo ospitando solo una frase, e poi ancora il quadrato finalmente vuoto.
Mi soffermerei sul 1973. Al crescente potere accademico, di orientamento rossiano [Aldo Rossi, architetto razionalista; ndr], e a un industrial design che traeva origine da una cultura iniziata nel 1920 e mai rinnovatasi, l’avanguardia radicale italiana rispose - in tempi di crisi sociale, politica, culturale ed energetica - con un inedito fronte unitario in cui lasciava confluire un patrimonio comune, complesso e contraddittorio. Consapevoli dell’urgenza, Archizoom Associati, Remo Buti, Riccardo Dalisi, Ugo La Pietra, 9999, Gaetano Pesce, Gianni Pettena, Rassegna, Ettore Sottsass Jr., Superstudio, UFO e Zziggurat, riuniti il 12 gennaio del 1973 presso la redazione milanese di “Casabella”, allora diretta da Alessandro Mendini, costituiscono la Global Tools: «Un sistema di laboratori per la propagazione dell’uso di materie, tecniche naturali e relativi comportamenti». Tu eri da poco rientrato in Italia su invito di Eugenio Battisti e Giovanni Koenig a tenere corsi presso la facoltà di Architettura di Firenze e ricordo mi confessasti che avevi preparato un cartello in tipografia che il giorno della fondazione tirasti fuori al momento della foto ufficiale di gruppo. Sul cartello campeggiava la scritta «io sono la spia», e il risultato fu l’immediata censura. Forse fu questo il primo e inequivocabile segnale della fine, del fallimento di una comunità che in seguito a dissensi e divergenze interne sulla strategia da adottare - in un momento in cui il mondo stava cambiando e l’Italia entrava nel cono d’ombra del terrorismo - di lì a breve si frammenterà in una nuova epoca in cui l’avanguardia sarà un fenomeno di massa. Ciononostante prendesti parte alla costituzione e alla realizzazione del primo seminario del Gruppo comunicazione «per continuare a lavorare per metafora, senza fotomontaggi, mobili e interni», secondo una strategia tutta personale che continuerai a sviluppare negli anni a seguire e che ti permetterà di fare la tua architettura del mondo dell’arte schivando presunte classificazioni di sorta.
Non penso che la Global Tools volesse vivere a lungo: nelle nostre intenzioni doveva essere una scuola dove i docenti fossero anche studenti: volevamo capire se potevamo lavorare anche insieme, capire se c’erano effettive affinità. Il lavoro del Gruppo comunicazione (assieme a Franco Vaccari e Ugo La Pietra) prevedeva un viaggio verso Est, per fotografare solo la meraviglia di coloro che ci guardavano man mano che ci avvicinavamo a Samarcanda. Ma c’era la cortina di ferro e il progetto richiedeva troppo tempo per la negoziazione con le autorità. Un po’ delusi ci concedemmo un break e ci raccontammo (era la fine di agosto) le rispettive vacanze appena trascorse: tutti contenti e soddisfatti. Poi ci dicemmo: perché non cerchiamo di sbagliare una vacanza tutti insieme questa volta? Cosa non faremmo mai? Ma una crociera! Ma una crociera noiosa? Una crociera lungo un fiume! Ma nella stagione sbagliata, per esempio a novembre, quando pioverà di sicuro. Così scegliemmo una crociera da Rotterdam a Basilea risalendo il Reno su una nave lussuosa (all’epoca avevamo un finanziatore molto generoso) durante la quale ci eravamo prefissati di fotografare e documentare la vita sulla nave di coloro che la vacanza l’avevano sbagliata sul serio. Ma chi erano dunque costoro? Circa la metà erano coppie di anziani di lingua tedesca uno dei quali aveva evidenti problemi di salute, insomma un romantico ultimo viaggio insieme dentro il mito dei Nibelunghi, Lorelei compresa. Poi coppie di sudamericani ricchi in viaggio di nozze che non avevano pensato che passando l’equatore le stagioni si invertivano. E infine la dattilografa australiana che aveva risparmiato per quattro anni per venire in ferie in Europa e sbagliare la vacanza, ragione per cui cercammo di consolarla estraendo uno di noi a sorte e invitandola fuori a cena. Il diario e la documentazione fotografica divennero una mostra e una pubblicazione.
Come vedi, il mio cartello «io sono la spia» si estese con le medesime intenzioni a tutto il gruppo e questo fu il nostro primo e ultimo lavoro all’interno della Global Tools, segnando un’epoca che finì senza traumi per nessuno di noi.