tKlein rappresenta lo spirito nuovo. È diverso da un pittore espressionista come Rothko, che è interessato alla
vibrazione luminosa dello spazio, e da Pollock, che vuole distruggerlo, farlo esplodere, rompendo il quadro. È diverso da me, perché io cerco uno
spazio ulteriore. Lui voleva l’infinito». Con queste parole, nel 1968, Lucio Fontana ricorda l’artista francese Yves Klein, le cui straordinarie
ricerche sul monocromo e sulla smaterializzazione dell’arte aveva incoraggiato e condiviso tra il 1957 e il 1962.
Si tratta di due artisti di
generazioni diverse - Fontana era nato a Rosario di Santa Fé, in Argentina, nel 1899, Klein a Nizza nel 1928 - che hanno sviluppato ricerche
autonome e indipendenti, come entrambi hanno sempre voluto specificare nelle loro dichiarazioni. Eppure, per cinque intensissimi anni che hanno
cambiato l’arte mondiale, sono stati strettamente legati da un profondo rapporto di stima reciproca e dalla comune aspirazione a rinnovare
radicalmente tutti gli aspetti dell’arte del proprio tempo, per inaugurare un’epoca nuova.
La mostra del Museo del Novecento, attraverso
settanta opere fondamentali giunte da musei e collezioni di tutta Europa, racconta i loro universi paralleli - per usare la diffusa immagine coniata
in riferimento alla teoria dei molti mondi formulata nel 1957 dal fisico quantistico americano Hugh Everett III - dal gennaio del 1957, quando
Fontana è il primo acquirente di un monocromo blu di Klein alla sua mostra dell’“epoca blu” alla Galleria Apollinaire di Guido Le Noci a Milano,
fino alla morte improvvisa del giovane artista francese il 6 giugno 1962.
Oltre ai rapporti diretti tra i due, la mostra dedica ampio spazio
alla presenza di Yves Klein in Italia e, viceversa, a quella di Fontana a Parigi dove - grazie a critici come Tapié, Rivière, Jouffroy, Restany e a
galleristi come Stadler, Clert, Larcade e Gualtieri di San Lazzaro - prende il via la sua avventura internazionale, sfidando i canoni ormai
consolidati dell’Informale.
Anche il percorso dell’esposizione - la prima di questa portata per il museo milanese giunto al quarto anno di
attività - è un po’ una sfida. Si snoda infatti in otto nuclei principali attraverso tutte le sale, rispettandone l’ineccepibile ordinamento
storico-scientifico e sforzandosi di integrarsi con i suoi spazi, ma anche offrendo allo spettatore opere e installazioni di grande effetto e
impegno.
Si va da una ricostruzione della celebre Galleria Apollinaire - covo «dei commandos delle arti belle», come scrive Dino Buzzati in
Blu, blu, blu, un articolo che contribuisce in maniera determinante al lancio di Klein in Italia - dove il pittore francese espone undici monocromi
blu assolutamente identici tra loro, all’accostamento inaspettato tra la superba Struttura al neon di Fontana (che, affacciata alle grandi vetrate
di piazza del Duomo, è il simbolo del museo) e l’ipnotica distesa blu di Pigment pur, ideata da Klein per una mostra parigina, sempre nel 1957, alla
Galerie Colette Allendy.
Nella prima presentazione di Klein a Milano, il critico Pierre Restany evocava il blu degli affreschi di Assisi -
suscitando le ire di critici conservatori come Marco Valsecchi - e di “blu Giotto” era dipinto, già nel 1951, il soffitto del Neon di Fontana
nell’allestimento, progettato da Luciano Baldessari, dello scalone della IX Triennale. Particolare attenzione è riservata alle suggestioni cosmiche
- che vanno dall’immaginario popolare della fantascienza alla fotografia astronomica e dall’esoterismo allo zen - nell’avventura monocroma di Klein
(Reliefs planétaires, Cosmogonies, Saut dans le vide) e in quella spazialista dello scultore italoargentino: il più grande meteorite esistente in
Italia (rinvenuto nel 1921 a Uegit, in Somalia) dialoga con le Nature, esposte nel novembre 1961 sotto una lunare luce azzurra dall’esuberante e
intraprendente gallerista parigina Iris Clert.

