ora, anche chi non li conosceva sa tutto: sa chi erano i “Monuments men”, i quarantotto uomini e donne, di
diverse nazionalità, che, durante l’ultima guerra, hanno contribuito grandemente a salvare buona parte del patrimonio storico e artistico della
nostra penisola. Grazie ad alcuni libri e a un film, sappiamo che uno di loro ha insegnato all’università e ha scritto vari saggi; un altro ha
voluto riposare a Firenze: ne hanno portato le spoglie a San Miniato, vicino a Carlo Collodi, l’autore di Pinocchio, e a queste esequie italiane era
presente anche Antonio Paolucci; un terzo è tornato in Italia, e ha diretto per trent’anni la British School a Roma; il loro vicecomandante era un
capitano, si chiamava Jim Rorimer, era stato tra i fondatori dei Cloisters, la sezione medievale del Metropolitan di New York, museo che poi ha
diretto dal 1955 al 1966. Thomas Hoving, il suo pupillo che gli è succeduto, dice, in Il re dei confessori, che era stato tra quanti
avevano interrogato Hermann Göring sull’arte rubata in mezza Europa; sua «l’idea di trasformare il Führerbau, gli uffici privati di Hitler a Monaco,
nel Centro per il recupero delle opere rubate; dal 1945 fino al 1951 ne furono riconsegnate più di cinquecentomila ai legittimi
proprietari»(1). Questi “Monuments men” ce li ha fatti conoscere Robert M. Edsel in due libri(2), di cui uno ha ispirato a
George Clooney l’omonimo film di grande successo, interpretato, oltre che da lui stesso, anche da Matt Damon e Cate Blanchett.
Ma questa
storia è anche un’occasione mancata per il nostro paese. Si parla dei “Monuments” stranieri, e l’Italia non ha pensato a celebrare, con l’occasione
e forte del “traino” garantito da questi libri e dal film di cassetta, anche i propri. Che non sono stati pochi, e neppure da meno: hanno recuperato
migliaia di capolavori, e posto in salvo ancora più opere dalle grinfie e dalle pretese dei nazisti; hanno corso non meno rischi dei loro colleghi
stranieri, senza neppure indossare una divisa; e reso possibile a noi, oggi, di ammirare molto di quanto ancora si conserva nei musei e nelle grandi
e piccole città d’arte italiane. I più giovani non li hanno conosciuti, e forse non ne hanno sentito nemmeno parlare; e anche tra i meno giovani, le
loro storie le conoscono soltanto i più informati. «L’Italia che non muore», per citare parole di Benedetto Croce all’Assemblea
Costituente(3), ha tanti volti e tanti nomi. Da quello di Rodolfo Siviero, il più celebre, a quelli di Pasquale Rotondi e di Emilio
Lavagnino, di Giulio Carlo Argan e di Palma Bucarelli; forse, perfino quello di Giuseppe Bottai, il “padre” della legge di tutela del 1939 che, come
ministro pur fascista della Cultura, si oppose invano all’esportazione di quanto “acquistavano” Hitler e Göring.
La prima opera a partire fu
il Discobolo Lancellotti, vincolato dal 1909, copia romana di un originale di Mirone, oggi al Museo nazionale romano. Nel 1938, con l’aiuto
prezioso di Filippo d’Assia, il marito di Mafalda di Savoia, il “numero due” del Führer lo compera per cinque milioni di lire; Galeazzo Ciano,
ministro degli Esteri, ha la meglio su Bottai e sul “no” del Consiglio superiore delle scienze e delle arti: ignora i divieti, e «per ragioni
amministrative», il capolavoro se ne va. Sarà tra le “perle” dei recuperi operati da Siviero.
Analoga sorte, dalla collezione di Alessandro
Contini Bonacossi, per la Leda e il cigno di Tintoretto, e per la Madonna dell’umiltà di Masolino da Panicale, oggi entrambe agli
Uffizi. Non c’era ancora la guerra e, tanto meno, una parte dell’Italia era stata invasa dalle truppe naziste: i primissimi atti del saccheggio
avvengono ai danni di un paese ufficialmente ancora alleato.
A dare misura di quella iniziale razzia, continuata negli anni successivi, a
guerra ormai iniziata, basta un elenco pur parziale delle opere che, tra il 1941 e il 1942 l’ambasciata tedesca a Roma acquista da antiquari della
capitale, nonché di Firenze, Genova, Venezia e in altre città: quadri di Tiziano, Lotto, Fragonard, Tanzio da Varallo; un intero soffitto di
Sebastiano Ricci (lungo sei metri, realizzato tra il 1700 e il 1704 per palazzo Mocenigo sul Canal grande a Venezia, ceduto dal conte Andrea di
Robilant a Hitler per 1 milione di lire d’allora; oggi è a Berlino, su uno scalone della Gemäldegalerie); un busto di Jacopo della Quercia (venduto
dai Bellini, a Firenze, per 66mila lire); un mosaico romano con il Ratto di Europa (è esposto al Landsmuseum di Oldenburg, Bassa Sassonia,
dal 1968; scavato a Praeneste nel 1676, era dei Barberini, e l’antiquario Sangiorgi lo spedisce direttamente al Führer per 150mila lire); fino ai
“colpi” maggiori: il Ritratto di uomo con una lettera di Hans Memling ora agli Uffizi e già Corsini (pagato 7 milioni all’antiquario
Paolozzi di Roma) e un soltanto presunto Leonardo, una Leda con il cigno acquistata per 10 milioni e mezzo a Firenze da Giugni, e ora agli Uffizi ma
declassata a copia di Francesco Melzi; l’originale, nel 1590 nelle raccolte reali francesi, è perduto. Ma il quadro più concupito da Hitler era
l’Adamo ed Eva di Lucas Cranach il Vecchio, degli Uffizi; Sergio Romano dice che era considerato dal regime «la genesi della stirpe germanica
»(4); Göring arriverà a possedere cinquantadue Cranach, tra i 6.755 dipinti e sculture razziati da lui (anche trenta Rubens, tra cui
parecchi nudi, che evidentemente apprezzava)(5).
Una vicenda che andrebbe raccontata in tutte le scuole
Questi sono soltanto alcuni tra i ritrovamenti migliori di Rodolfo Siviero (1911-1983), personaggio singolare e a suo tempo assai contrastato, per
il quale fu creato un Servizio, dipendente dal Ministero degli esteri, per il recupero delle opere sparite con la guerra. Un personaggio fortemente
avversato, che ottenne la pensione d’anzianità soltanto dopo la morte. Il catalogo delle opere che non aveva mai smesso di cercare (in copertina,
una Testa di fauno di Michelangelo in marmo, alta 26 centimetri e già al Bargello, rubata il 23 agosto 1944 al castello Guidi di Poppi, nei
pressi di Arezzo, dov’era ricoverata, dai nazisti della 303ª Divisione di fanteria in ritirata) non è stato pubblicato che nel 1995, per iniziativa
dell’allora ministro dei Beni culturali Antonio Paolucci, il quale collaborò con lui da giovane: spiega e racconta che mancano ancora all’appello
più di millecinquecento opere(6). Siviero combatté la propria battaglia già durante la guerra, per salvare qualcosa, e non soltanto dopo,
per ritrovare quanto se n’era già andato; ma nel salvataggio dell’arte italiana durante gli anni più bui, altri hanno indubbiamente avuto meriti
perfino maggiori.
Per esempio, Pasquale Rotondi (1909- 1991) ed Emilio Lavagnino (1898-1963). Il primo, allora soprintendente a Urbino, chiuse
la carriera come direttore dell’Istituto centrale per il restauro e poi fu supervisore del restauro della volta della Cappella sistina; il secondo
fu soprintendente del Lazio dal 1952 e da ultimo affidò a Pico Cellini il restauro, da lui controllato finché poté, della finta cupola prospettica
di Andrea Pozzo nella chiesa romana di Sant’Ignazio. Di Rotondi c’è una foto famosa: lui, con soprabito e Borsalino sotto al Palazzo ducale di
Urbino, una vecchia Balilla e un altro signore, più giovane, Augusto Pretelli, l’unico autista di piazza della città, messo a disposizione del
funzionario dal segretario comunale Francesco Emiliani (il padre di Andrea, per decenni soprintendente a Bologna, e di Vittorio, già direttore del
“Messaggero”). Bene: con un camion sgangherato e di fortuna e questa automobile, e con quattro custodi fedeli, Rotondi salvò mezza Italia. Su idea
del ricordato ministro Bottai e di Giulio Carlo Argan, allora giovane funzionario del Ministero della cultura, fu incaricato di nascondere in
segreto alcuni tesori fondamentali. Prima, nella rocca di Sassocovaro, poi nel palazzo dei principi Carpegna (entrambi nella provincia di
Pesaro-Urbino): oltre diecimila capolavori, tra cui opere di Raffaello, Giovanni Bellini, quattro Piero della Francesca, Paolo Uccello, Carpaccio,
Mantegna, Carlo Crivelli, tredici Tiziano, diciassette Tintoretto, il veneziano tesoro di San Marco e La tempesta di Giorgione, i
Caravaggio di San Luigi dei Francesi a Roma e i cimeli di Gioachino Rossini da Pesaro. Per quarant’anni non se n’è saputo un bel nulla: «Mio padre
non si considerava un eroe, ha sempre detto di aver fatto solo il lavoro del soprintendente», spiegava la figlia Giovanna, che poi è stata a sua
volta soprintendente a Genova. Della faccenda si è saputo per caso, nel 1984: quando il sindaco di Sassocorvaro, saputa la cosa, lo ha atteso a
lungo sulla porta del Vaticano, dove andava a controllare il restauro della Sistina. Solo allora il funzionario ha accettato di raccontare; sono
saltati fuori anche i suoi preziosi diari e la Repubblica gli ha conferito, finalmente, la medaglia d’oro per quanto aveva eroicamente fatto.
Ma quando il fronte bellico cominciò a passare proprio da quelle parti, dopo l’8 settembre, i nascondigli non erano più sicuri. Allora, tutto
in Vaticano, con l’aiuto di chi già vi aveva salvato tante opere da tutto il Lazio, Emilio Lavagnino. Sempre di nascosto dagli occupanti tedeschi,
sempre con ostacoli del regime di Salò, che i funzionari li voleva lassù, nel Nord. Lavagnino fu perfino cacciato dall’amministrazione; intanto,
percorreva chiese e musei del Lazio, salvando quel che si poteva: Viterbo, Bolsena, Rieti, Tarquinia, Tuscania, Civitavecchia, Sutri, Montefiascone,
Fondi. Pure per lui, Argan giocò un ruolo fondamentale: insieme, andarono alla segreteria di Stato vaticana onde ottenere di poter ricoverare le
opere, e il sostituto Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, lo permise. In Vaticano arrivarono anche l’Altare d’oro della basilica
di Sant’Ambrogio a Milano, e il tesoro longobardo del duomo di Monza.
Oltre a costoro, tanti altri si prodigarono salvando le nostre bellezze.
Da Palma Bucarelli a Roma, a Fernanda Wittgens a Milano; da Bruno Molajoli ad Amedeo Maiuri, a Gian Alberto Dell’Acqua, che tentò di scongiurare la
rovina a Milano salendo sui tetti della pinacoteca di Brera in fiamme, e togliendo i tizzoni ardenti a mani nude; al soprintendente milanese
Guglielmo Pacchioni che, con una “task force” di poche e fidate persone, imballò e nascose opere nei sotterranei del Castello sforzesco e di una
banca, o spedì in due ville nei pressi di Brescia e Perugia i tesori della città, che più tardi saranno spostati nelle Marche. E altri ancora. Ma
perché, allora, il nostro paese non ha approfittato del battage dei libri e del film per insegnare la vicenda in tutte le scuole, o per organizzare
uno di quelli che si chiamano “grandi eventi”, un’importante mostra nazionale? Non si è pensato a sensibilizzare il pubblico quando è stato il
momento migliore per farlo: un’altra occasione perduta.





