olimpia, argo e tebe,
tideo e anfiarao

Partiamo dal Maestro di Olimpia. La definizione convenzionale, che è di quelle che si usano quando un artista è grande ma non si riesce a scoprirne l’identità,



fu proposta da Giovanni Becatti (1943), che fu fra i più incisivi nel definirne la personalità. Le fonti per la verità (e in particolare Pausania, autore in età imperiale romana di una Periegesi, o guida, della Grecia) il nome di Alkamenes lo avevano fatto, ma si era pensato che fosse il più giovane dei due scultori ateniesi a noi noti con questo nome, e quindi si era ipotizzato che fosse autore non del lavoro eseguito al momento della costruzione, ma di successivi restauri. Forse ha ragione Moreno sostenendo che Pausania alludesse invece ad Alkamenes il vecchio, che in quegli anni risulta in piena attività. Quanto ad Ageladas di Argo, nipote di un altro Ageladas che aveva già lavorato a Olimpia alla fine del VI a.C., la proposta deriva da altri tipi di congetture: era forse lo scultore più noto della sua generazione, maestro di Fidia, Mirone e Policleto, e quindi era quasi inevitabile che fosse coinvolto nel progetto, visti anche gli ottimi rapporti fra Olimpia e Argo, entrambe a loro volta amiche di Atene (ricordate la presenza di Temistocle a Olimpia e quella dell’eroe ateniese Teseo nella Lotta fra lapiti e centauri sul frontone occidentale del tempio?); inoltre un suo lavoro precedente, un monumento fatto costruire dai tarantini nel santuario di Delfi, raffigurava donne e cavalli, in un certo senso prefigurando soggetti ben presenti nel frontone orientale del tempio di Zeus, quello raffigurante la fase precedente alla partenza della corsa di Pelope e Enomao per la mano di Ippodamia.
Ma torniamo ai Bronzi: ricordiamo che le terre di fusione di A sono compatibili con l’area di Argo, quelle di B con l’Attica: è logico pensare quindi che la prima statua sia opera di un artista argivo, la seconda di un ateniese, ed è suggestivo ipotizzare che i due potessero essere proprio Ageladas e Alkamenes, che, come abbiamo appena visto, già avevano collaborato a Olimpia. Molti studiosi (e si può capire) diffidano quando da un’ipotesi ne zampilla una serie di altre, ma qui c’è una certa logica; Moreno inoltre propone una serie di confronti fra i Bronzi e altre opere attribuite con certezza ai due artisti, e non solo a Olimpia. Sommessamente, senza per questo voler discutere il quadro complessivo (né tanto meno proporre una recensione quindici anni dopo l’uscita del libro), va detto che alcuni di questi confronti appaiono convincenti, altri meno. I più convincenti (almeno per quanto riguarda l’impostazione della figura) sono, per A, l’Herakles Alexikakos (cioè difensore dal male) del Museo nazionale romano, o il Teseo (precedentemente interpretato come Ares) che conosciamo da una copia di età romana a Villa adriana, entrambi opera di Ageladas; per B il Pankratiastes (cioè lottatore di pancrazio, una sorta di pugilato) attribuito ad Alkamenes e noto dalla riproduzione in uno stucco di Stabia conservato nell’Antiquarium di Castellammare (Napoli). Più difficile da cogliere (se vogliamo affrontare un caso estremo) il confronto che Moreno propone fra A e l’Apollo del frontone ovest di Olimpia: c’è in entrambe le statue una forte torsione del capo verso destra, ma certo la somiglianza non è di quelle che balzano imperiosamente agli occhi. Importante, comunque, è che la ricostruita collaborazione fra Ageladas e Alkamenes metta in fuga uno dei dubbi che accompagnavano i Bronzi fin dalla scoperta: se, pur diversi, facessero parte di un progetto unitario oppure no. A questo punto dovremmo dire di sì, e dovremmo pensare che le differenze riscontrate nei materiali e nella lavorazione siano dovute più ai diversi luoghi e officine in cui le statue vennero prodotte che a disparità cronologiche (come invece si era pensato): entrambe le sculture si collocano intorno al 450 a.C. Resta singolare (tornando ancora al problema delle terre di fusione) che due opere destinate a uno stesso monumento fossero eseguite l’una ad Argo, l’altra ad Atene. Forse il prestigio dei due autori consentiva loro di lavorare “ognuno a casa sua”: al ricongiungimento si sarebbe provveduto poi.

Già, ricongiungimento: ma dove? Per quale tipo di monumento? L’attenzione si concentra su un’altra notizia di Pausania, relativa questa volta all’agorà di Argo, dove era un monumento dedicato all’impresa dei Sette contro Tebe. Ne sono stati individuati i resti: una struttura semicircolare, con basi di statue e iscrizioni. Quello dei Sette era un mito antichissimo, cantato nella già ricordata Tebaide, un poema epico quasi completamente perduto che qualcuno attribuiva a Omero, ma che probabilmente era precedente all’Iliade, così come i fatti narrati, fra storia e leggenda, erano anteriori alla guerra di Troia: fu ripreso da Eschilo in una tragedia rappresentata ad Atene nel 467 a.C. e, più tardi, dal poeta latino Stazio. La trama è nota: Eteocle e Polinice, dopo l’allontanamento del padre Edipo da Tebe, non trovano un accordo per la successione, e alla fine decidono che regneranno un anno per uno. Il primo turno è di Eteocle, che però a fine mandato non lascia il trono; Polinice va ad Argo, e alla corte del re Adrasto incontra Tideo (padre dell’eroe omerico Diomede) con cui concorda di attaccare Tebe. Al comando di Adrasto partono sette eroi: oltre a Tideo e Polinice, Capaneo, Eteoclo, Ippomedonte, Partenopeo, Anfiarao. Tideo viene mandato in ambasceria: non solo la situazione non si sblocca, ma subisce un agguato di ben cinquanta tebani, che però riesce a sgominare. Gli autori antichi, a partire da Eschilo, descrivono con dovizia di dettagli la sua belluina violenza, il suo forsennato vigore, la sua aggressività sconfinante nell’antropofagia. Ognuno dei Sette ha il compito di attaccare una delle sette porte della città, ma Eteocle pone altrettanti comandanti a difesa. Tutti gli assalitori muoiono (Tideo, in particolare, dopo essere stato gravemente ferito e dopo aver azzannato alla testa, malgrado questo, il rivale Melanippo), Eteocle e Polinice si uccidono a vicenda, sopravvive solo Anfiarao che era quello che aveva partecipato con più perplessità all’impresa poiché, dotato di virtù profetiche, aveva previsto l’insuccesso.
Ci si potrebbe domandare perché Argo volesse celebrare con un grande monumento un’impresa così sfortunata. In realtà, la base nell’agorà della città ospitava quattordici statue: non solo i Sette, ma anche gli Epigoni, i “discendenti” che, dieci anni dopo, avevano vendicato quel disastro, distruggendo Tebe. Il riferimento all’antichissima leggenda assumeva la funzione di proiezione nel mito (cosa non insolita nella cultura greca) di eventi storici: in questo caso la lunga lotta con Sparta. Nel 494 a.C. gli argivi erano stati battuti dagli spartani a Sepeia, e avevano perso il controllo di Tirinto e Micene, ma nel 461, alleati con Atene, avevano vinto a Oinoe, riprendendosi le due città. In quella stessa fase centrale del V secolo, la cupa grandezza dell’antica vicenda dei Sette ispirava un grande poeta tragico come Eschilo: i Bronzi di Riace furono eseguiti nel giro di anni in cui veniva completata e poi rappresentata la tragedia, e il fatto che per uno dei due sia stato individuato un grande autore argivo ha indotto Paolo Moreno a stabilire un nesso proprio con il monumento illustrato da Pausania.
Un’altra domanda potremmo porci: perché Pausania stesso non nomina Ageladas né a Olimpia né ad Argo? Ma si sa che spesso le fonti non ci raccontano tutto quello che vorremmo sapere da loro.


Teseo, copia in marmo di età romana di un originale in bronzo (450 circa a.C.) di Ageladas; Tivoli (Roma), Villa adriana, Antiquarium.Teseo, copia in marmo di età romana di un originale in bronzo (450 circa a.C.) di Ageladas; Tivoli (Roma), Villa adriana, Antiquarium.

In queste pagine sono raffigurate due fra le opere famose di Alkamenes e Ageladas. Quest’ultimo è autore di un Teseo che conosciamo da una riproduzione di età romana: il soggetto raffigurato e l’attribuzione al maestro argivo erano stati già ipotizzati da Enrico Paribeni; Moreno giudica plausibile questa ricostruzione, anche se non rinuncia del tutto a un’altra possibilità, che si tratti cioè di uno degli Epigoni (i “discendenti” che, dieci anni dopo la spedizione dei Sette, ne vendicarono la sconfitta) raffigurati nell’agorà della stessa Argo. Procne e Itys sono protagonisti di un mito anch’esso tragico, ma su un piano diverso: un tipo di tragicità (come talvolta accade nel mito greco) che la mente umana “normale” non accoglie. Procne, figlia di Pandione re di Atene, per vendicarsi dell’infedeltà del marito Tereo, uccise il figlioletto Itys e ne imbandì le carni a Tereo stesso. Pausania rivela che il soggetto era stato affrontato dal maestro ateniese Alkamenes in un gruppo, stavolta marmoreo, esposto nell’Acropoli: il ritrovamento, proprio nell’Acropoli, di una scultura (purtroppo alquanto danneggiata) raffigurante una figura femminile e un fanciullo davanti alle sue ginocchia, ha da tempo fatto pensare che sia questo il gruppo di cui parla Pausania. Caratteristico dell’opera dovrebbe essere il contrasto fra la figura seminuda e flessuosa del bambino e quella panneggiata della donna, ma lo stato di conservazione non consente di afferrare appieno né i dettagli stilistici né il livello qualitativo complessivo.