come se Dio reggesse in mano una sfera di cristallo e ne osservasse il contenuto. All’interno della sfera c’è il
mondo nel momento in cui Dio stesso vi entra dentro e ne diviene spartiacque, chiave di volta e punto focale. La visione è simultanea, propria di
colui che è prima del tempo, immutabile, perfetto, “Essere in eterno presente”. La scena è un flusso di visioni, una concatenata all’altra, dove i
protagonisti di ciascun episodio non si accorgono di quelli del successivo, in un caos che è tale solo per chi agisce nella scena: dentro
Gerusalemme, vista dall’alto, il Cristo re salva l’universo nell’arco di tempo che va dalla notte del Getsemani all’alba della Resurrezione. I
committenti dell’opera giacciono in ginocchio a cornice dell’evento, immobili spettatori della visione spirituale e parte stessa di ciò che Dio
vede. È la Passione di Cristo di Hans Memling, bandiera ideale della grande mostra Memling. Rinascimento fiammingo, allestita alle
Scuderie del Quirinale. Qualora ci fossero dubbi in merito, l’esposizione è qualcosa di epocale, solenne, imponente per opere presenti e impeccabile
per impostazione. Da sottolineare innanzitutto il merito di aver affidato la curatela scientifica a Till-Holger Borchert, attuale direttore del
Groeningemuseum di Bruges, uomo simbolo degli studi memlinghiani da sempre, che ha saputo imporre prontamente un taglio critico di rara onestà
intellettuale nell’affrontare l’influenza dell’arte fiamminga in Italia. Quello di Memling, infatti, è un caso emblematico del rapporto che ci fu
lungo tutto il XV secolo tra l’arte fiamminga e il mondo artistico italiano, sia per quanto riguarda i pittori sia per quanto riguarda i
committenti. Spiegare con chiarezza tale rapporto non è facile e, fin dai tempi di Roberto Longhi, la lettura critica del feno meno è stata vittima
di un ipotetico “agone” tra l’arte italiana e la cosiddetta “pittura ponentina”, chiamando in causa proprio l’autore che più di tutti ebbe
implicazioni col mondo italiano, Memling.
si contrappone il ritmo spaziale solenne e quieto
del Trittico di Adriaan Reins di Memling
Per capire la situazione, la mostra cala il visitatore nell’Europa del Quattrocento, puntando i riflettori su quella globalizzazione “ante litteram” che fu il filo conduttore dei rapporti tra Italia e Fiandra, due ricchezze speculari e, non a caso, due culle della pittura occidentale. Il plurale è d’obbligo, perché la grande stagione dei primitivi fiamminghi non fu succube né tantomeno inferiore per risultati alla coeva situazione italiana. Chiara, allora, la scelta di raccogliere in mostra quante più committenze italiane possibili, che furono molte e molto importanti. L’arte di Hans Memling(Seligenstadt 1435/1440 - Bruges 1494) rappresenta un’ideale pietra miliare nella storia delle committenze italiane ad artisti fiamminghi; committenti che, dagli Arnolfini di Van Eyck in poi, avevano riposto nel possesso di opere d’arte nordica l’affermazione della loro ricchezza, del loro potere e della loro caratura internazionale. Tani, Baroncelli, Portinari sono solo alcuni dei nomi di coloro che trovarono in Memling ciò che era perfetto per le loro esigenze. Cosa, dunque, lo rendeva così attraente per quel mondo? Lo spiega bene il confronto col suo probabile maestro, Rogier van der Weyden, di cui campeggia in mostra il celebre Compianto sul Cristo morto, opera intrisa di raffinato arcaismo, tesa verso un pathos violento e indifferente alla coerenza spaziale, tutta pervasa da un decorativismo degno di un orefice. Se si volge lo sguardo al Trittico di Adriaan Reins, di soggetto pressoché uguale ma realizzato qualche decennio più tardi da Memling, ecco comparire un ritmo spaziale solenne e quieto, all’insegna di un plasticismo meno particolareggiato ma più coerente e solido, più “facile” per una visione italiana dell’arte.

