Se ne avvide anche Vasari, che nella seconda edizione delle Vite (1568) tentò di rimpolpare il problematico regesto architettonico del poliedrico artista asdrubaldino con una serie di attribuzioni di vario livello, tuttora rimaste tali senza il riscontro di dati documentari. Ma nel giro di poco tempo l’inafferrabile Donato s’impone all’attenzione con due opere che lasciano il segno, cambiando di colpo l’intonazione dell’architettura romana dell’epoca.
La prima in ordine di tempo (1501-1504) è il chiostro presso la chiesa di Santa Maria della Pace, eretta sotto Sisto IV all’inizio degli anni Ottanta
del XV secolo. In uno spazio fortemente limitato dalla chiesa adiacente, dall’isolato irregolare affacciato sul vicolo della Volpe e dal corpo
conventuale dei canonici regolari lateranensi, Bramante inserisce un chiostro dal respiro nobile e magniloquente di un’architettura classica, innervato
di suggestioni moderne come l’umanistico fregio continuo con iscrizione in eleganti caratteri epigrafici, ripreso dal Palazzo ducale di Urbino, o la
brillante trovata della parasta filiforme affiorante nella soluzione angolare, che sviluppa uno spunto brunelleschiano superando in questo caso senza
inibizioni il modello del grande cortile urbinate e la sua soluzione d’angolo ideata da Laurana.
Sin da subito Donato offre invoglianti spunti per il dibattito, a oggi mai sopito, se sia da considerarsi un architetto classico o anticlassico. Mentre
proseguono i lavori del chiostro che ancora oggi porta il suo nome, commissionati dal cardinale Oliviero Carafa della Stadera, aristocratico napoletano
di elevata cultura e committente, a Napoli, della cappella del Succorpo, Bramante viene coinvolto in modo oggi non più giudicabile anche nei lavori
patrocinati verso il 1501 dallo stesso Carafa nel chiostro della Cisterna a Santa Maria sopra Minerva, poi sostituito da un radicale rifacimento
tardocinquecentesco.
