Quando Corrado Levi a metà degli anni Ottanta nelle sue lezioni al Politecnico di Milano raccontava delle sperimentazioni della “new wave” newyorchese nei magazzini sulle sponde del fiume Hudson, alcuni dei suoi studenti - ispirati - decisero di occupare lo spazio industriale Brown Boveri in disuso in Isola, quartiere storico di Milano, ed esso divenne teatro di alcune delle mostre simbolo di quegli anni(1). Tra questi studenti c’erano Francesco Garbelli, Stefano Arienti e Stefano Sevegnani. L’esperienza era sintomatica dell’esigenza di un sistema autonomo di produzione e promozione dell’arte, e maturava dalla volontà di agire senza vincoli commerciali e senza alcun patronato o committenza. Purtroppo pochi sono i documenti rimasti di quel singolare episodio che vitalizzò la scena artistica milanese verso gli anni Novanta. Erano gli anni in cui “Flash Art” trasferiva la sede da Roma a Milano, riconoscendo il capoluogo lombardo come il fulcro della fiducia economica e sociale del paese e il centro di nuove sperimentazioni e contaminazioni.
Nel 1989, ancora una volta da un’iniziativa artistica, nasceva lo Spazio di via Lazzaro Palazzi, che si proponeva come nuovo centro per le espressività emergenti, al di fuori dei luoghi tradizionali deputati alle arti e al di là dei confini disciplinari, con l’idea di fornire nuove opportunità agli artisti. Si trattava di un luogo autogestito, come il gruppo di via Fiuggi che negli anni successivi a Milano promuoveva nuove vie di ricerca e di divulgazione dell’arte contemporanea. Nascevano anche spazi no profit per assolvere la funzione di luoghi di conservazione e di archivio della memoria artistica, luoghi di dibattiti e di residenze, luoghi di opportunità: questo è il caso di realtà più strutturate e ancora attive, come Viafarini e Careof con l’archivio DOCVA (Documentation Center for Visual Arts).
