Il secondo dopoguerra, in Italia, non vide, fortunatamente, gli alleati partire e tornarsene subito a casa. Essi restarono, inglesi o americani che fossero. Alcuni visibili, altri presenti con maggiore discrezione, tutti però impegnati a traghettare l’Italia verso la democrazia, cercando di evitare vendette e focolai di guerra civile.
Nel 1948 cominciarono ad arrivare i soldi del piano Marshall per evitare che dalla fame e dalla miseria potessero nascere in Europa nuove dittature. Gli alleati dapprima si avvalsero della collaborazione di chi aveva resistito, ma i partigiani, gli antifascisti, non erano stati molti. Vale per l’Italia quello che disse Churchill, il 20 agosto 1940, parlando della resistenza britannica ai tedeschi: «Never in the field of human conflict was so much owed by so many to so fews»(*). L’onore dell’Italia, infangato da Mussolini prima con la dittatura, poi con le leggi razziali e infine con l’alleanza con Hitler, aveva ancora un lumicino, era quello di gente come Alcide De Gasperi e Federico Chabod, pietre rare e forti sulle quali si appoggiò un intero paese per potersi risollevare. Quelli che avevano subito il nazifascismo, quelli che l’avevano contrastato, quelli che l’avevano appoggiato e infine anche quelli che l’avevano guardato passivamente si trovarono a girare tutti insieme in una veloce ruota di resurrezione che non consentiva troppe riflessioni. Bisognava riedificare, rimettere in piedi le proprie vite e l’Italia.
I bombardamenti aerei su Milano durante la seconda guerra mondiale, dal 1940 al 1945, furono ben sessanta. Particolarmente duri quelli del 1942 e del 1943. Un terzo degli edifici andò distrutto. In piazza San Fedele, la statua di Alessandro Manzoni, miracolosamente rimasta in piedi, osservava palazzo Marino, la Scala e la galleria Vittorio Emanuele semidistrutti dalle bombe incendiarie inglesi.
In altre parti della città lo spettacolo non era dissimile: Palazzo reale, palazzo Visconti di Modrone, il sacrario ai caduti di Giovanni Muzio, la basilica di Sant’Ambrogio erano gravemente danneggiati.
La facciata quattrocentesca dell’Ospedale Maggiore, crollata, come anche buona parte della chiesa di Santa Maria delle Grazie dove l’Ultima cena di Leonardo era rimasta incredibilmente al suo posto. Il disastro di una guerra così sbagliata era sotto gli occhi di tutti. Milano era allora la più importante città industriale d’Italia con grandi stabilimenti come l’Alfa Romeo, la Magneti Marelli, la Borletti, la Brown Boveri, la Pirelli, l’Isotta Fraschini, la Caproni, la Breda, l’Ansaldo, la Falck, soltanto per citarne alcuni. Per questo motivo il capoluogo lombardo fu al centro del mirino degli alleati. I milanesi seppero però trovare dentro di loro la forza, la volontà e l’ingegno per rimettersi in piedi. L’11 maggio 1946, alle ore 21, la bacchetta di Arturo Toscanini, tornato in Italia dall’esilio, inaugurò, con musiche di Rossini, Verdi, Puccini e Boito, la Scala ricostruita. Fra le macerie di una città con ben centomila persone senzatetto camminava, immediatamente dopo la liberazione, un euforico Alberto Savinio: «Giro tra le rovine di Milano. Perché questa esaltazione in me? Dovrei essere triste, invece sono formicolante di gioia. Dovrei mulinare pensieri di morte, invece pensieri di vita mi battono in fronte come il soffio del più puro e radioso mattino. Perché sento che da questa morte nascerà nuova vita. Sento che da queste rovine nascerà una città più forte, più ricca e più bella». Le cose non andarono poi proprio così, l’edilizia degli anni Cinquanta, nell’ansia a volte prettamente commerciale di fabbricare, di innalzare nuove case, perse il filo estetico e quello etico lasciando di sé un’immagine disordinata e spesso brutta. È un’immagine che non si può cancellare.
La stragrande maggioranza degli abitanti di Milano non aveva tempo per molte elucubrazioni, eppure le sensazioni e i sentimenti espressi da Savinio fanno parte, se non altro, dell’inconscio di allora della città.
«La torre Velasca si propone
di riassumere culturalmente
e senza ricalcare il linguaggio
di nessuno dei suoi edifici,
l’atmosfera della città
di Milano», così disse
Ernesto Rogers nel giorno
dell’inaugurazione


