Il museo immaginario
IronIa, TragedIa,
realIsmo magIco
di Il Museo Immaginario
ilmuseoimmaginario.blogspot.it
Con questa nuova rubrica iniziamo un viaggio alternativo nell’arte del Novecento, alla riscoperta di grandi artisti, di opere e storie spesso dimenticate. In perenne oscillazione fra alto e basso, tra arte acclamata e cultura pop.
Gli autoritratti, straordinari, quasi inediti per l’Italia, di Dick Ket, lo riportano alla mente. E ci fanno entrare, in punta di piedi, in una vita silenziosa, vissuta in 95 metri quadrati. Una storia che mi piace condividere, prima che voli via.
Dick Ket (1902-1940) è stato un pittore e incisore olandese noto per le sue nature morte e per gli autoritratti con le “dita a bacchetta”. Ha prodotto solo centoquaranta dipinti, la maggior parte negli ultimi dieci anni di vita. E come risultato delle sue azzardate sperimentazioni tecniche, alcune tele, dopo settantacinque anni, non sono ancora completamente asciutte.
Cult per chi lo conosce, sconosciuto ai più, Dick nasce con un difetto cardiaco grave, probabilmente la tetralogia di Fallot, che gli provoca un insufficiente nutrimento di tessuti e organi. Dopo gli studi d’arte alla Kunstoefening di Arnhem (1922-1925) non riesce più a viaggiare e, debilitato dalla stanchezza cronica che la grave patologia gli provoca e da crescenti fobie, finisce così per vivere, appartato, con i genitori, a Bennekom, dalla cui dimora, dopo il 1930, non uscirà più.
Sarà così l’evoluzione del suo volto a raccontare, con spiazzante crudezza, l’avanzamento progressivo della malattia. Cianosi compresa.
Morirà a trentotto anni. Perplesso e malinconico, mai disperato. Capace di esprimere nelle lettere - pubblicate postume - umorismo e autoironia, la passione per arti, letteratura, musica, cinema, ma anche per giochi di parole ed enigmistica. Perché i geni, a volte, sanno sorridere, anche nella tragedia.
Mentre i primi dipinti sono postimpressionisti, dal 1929 viene fortemente influenzato dalla Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività), e quindi dal realismo magico, movimento che potrà conoscere solo attraverso riproduzioni.
Le sue meticolose nature morte presentano bottiglie, una ciotola vuota, uova, strumenti musicali. Ket propone questi oggetti comuni in modalità angolari, visti ora dall’alto, ora in scorcio.
Ma è nel ritratto che si apre una pagina tra le più toccanti della pittura. Come nell’autoritratto del 1932.
Il suo è un aspetto bizzarro e sofferente, contraddistinto da una strana pigmentazione della pelle e dalla forma delle dita, sintomatiche della malattia, che si colorano sempre più di grigioblu. Ha la camicia aperta, a evocare il problema cardiaco, un cavalluccio alle spalle per ricordare il suo status infantile, gioco di parole che indica il proprio nome (in olandese il cavalluccio si dice “Kets”). Nell’angolo in basso, a destra, ha dipinto «FIN» parola in immagine speculare, quasi a ricordare la morte che si sta avvicinando. Elemento rafforzato dalla caducità del fiore. In una miscela di ironia e tragedia che lo rende, non solo come pittore, una grande figura del Novecento.
Mi sarebbe piaciuto averlo come amico.