Agli albori del futurismo, nel primo decennio del Novecento, Milano è da almeno mezzo secolo una città strutturalmente proiettata verso il futuro, con un sistema ferroviario e di traffico urbano complesso collegato a un’industrializzazione, inizialmente localizzata al centro, il cui progressivo sviluppo e potenziamento investe in una prima fase aree allora periferiche, in gran parte occupate da “ortaglie”, tra la cerchia dei Navigli e le mura spagnole, per poi ampliarsi alla cinta tra le mura e la circonvallazione esterna. I primi fenomeni documentati di meccanizzazione della vita e dei comportamenti umani - in termini che ritroveremo figurativamente restituiti nel Boccioni di Beata solitudo e, più avanti e più sistematicamente, negli “automi” di Fortunato Depero o Vinicio Paladini degli anni Venti - risalgono addirittura agli anni Sessanta dell’Ottocento. Un’incisione del 1865 circa mostra un bel palazzo di corso di Porta Romana, ancora esistente pur con tutt’altra destinazione, che allora ospitava la fabbrica Binda di bottoni d’osso; le operaie vi si muovevano all’unisono con le macchine, seguendo il loro ritmo e finendo per diventare da esse indistinguibili. Erano infatti ricoperte, come le loro macchine, da una grigia polvere d’osso diffusa dappertutto, derivante dalla lavorazione; e al cronista dell’“Eco della Borsa” - mandato a raccogliere impressioni della nuova Milano mirabilmente operosa - apparivano come «statue irrugginite» dai movimenti a scatti.
