Il 7 ottobre scorso si è aperta al Musée du Quai Branly di Parigi la mostra Mayas, Révélation d’un temps sans fin. è la terza mostra sui Maya (in corso fino all’8 febbraio) che si tiene nella capitale francese negli ultimi anni. Nel 2011 lo stesso museo aveva ospitato Maya: de l’aube au crépuscule, che presentava esclusivamente reperti del Guatemala. Nel 2012, invece, era stata la volta della Pinacothèque de Paris con la rassegna Les masques de jade mayas. Le mostre di Parigi, peraltro, sono state la punta dell’iceberg di una serie di altre esposizioni che negli ultimi anni si sono tenute in Europa (Leida, Amburgo, Hildesheim, Rosenheim, Madrid, Valencia ecc.), per non parlare di quelle organizzate in paesi come il Brasile, la Colombia o il Giappone, nei quali, a torto, mai si sarebbe pensato a iniziative sui Maya, o di quelle, ancor più frequenti e quasi sempre itineranti, degli Stati Uniti e del Canada.
Certamente bisogna mettere in conto il 2012, per i Maya l’anno della fine di uno dei cicli del Conto Lungo, che ha dato un certo impulso a studiare questa cultura(*). Di fronte al fiorire di simili iniziative qualcuno potrebbe chiedersi se il ripetersi di manifestazioni sui Maya potrebbe finire col riproporre gli stessi oggetti. La risposta a questa domanda è al contempo semplice e complessa.
