che la più grande libertà di spirito ci è lasciata. Sta a noi non farne cattivo uso. Incatenare l’immaginazione, anche trattandosi di ciò che comunemente si chiama felicità, è come sottrarsi a ciò che v’è nell’intimo nostro di suprema giustizia. Solo l’immaginazione mi dà conto di ciò “che può essere”».
Su questa riflessione riemerge la filosofia dell’“oltre”, ormai riscattata dai narcotizzanti veleni del simbolismo. Da medico psichiatra e studioso di Freud, Breton si appropria della teoria dell’inconscio formulata dal “maestro” per cesellare a sua volta un sillogismo tutto sommato semplice: i processi psichici agiscono per immagini, e siccome compito naturale dell’arte è produrre immagini, saranno le immagini lo strumento ideale per far emergere i contenuti del profondo.
L’atto creativo fa così da cartina di tornasole alla contrapposizione tra il mondo emerso della realtà e quello sommerso dell’inconscio (come lo stesso Breton avrà modo di specificare nel successivo Il surrealismo e la pittura). Ne consegue che l’arte cessa d’essere mero strumento di rappresentazione permettendo all’inconscio di debordare dai confini impostigli dalla coscienza - il Super-Io freudiano - e manifestarsi allo sguardo.