“CUPIDI AETERNITATIS”:
RITRARRE PER RENDERE
IMMORTALI

È una finestra che si apre sull’eternità quella che i pittori, soprattutto del Rinascimento, concepivano realizzando il ritratto di qualcuno.

L'idea di lasciare ai posteri la percezione esatta delle proprie fattezze, infatti, costituiva, allora come ora, uno dei tanti espedienti che gli uomini hanno messo in atto per gabbare la morte. Naturalmente, è un’illusione, ma ha la sua efficacia. In quest’ottica, il successo di Raffaello come ritrattista si spiega assai bene, al di là del suo importante contributo a questo genere artistico, di cui ha profondamente mutato la tipologia e l’assetto compositivo. Non si ritenga questa riflessione insulsa perché, se avessero potuto, ammirando i ritratti del grande urbinate, i suoi committenti avrebbero volentieri detto quel che, sia pure sbagliando (non si può qui affrontare il problema e, certo, si tratta di una semplificazione), possiamo dire oggi con un paragone improprio: «Sembra una fotografia! ». È tuttavia a quel massimo grado di aderenza alla fisionomia originale che tendevano le sue opere. Neanche questa considerazione, sebbene iperbolica, può dirsi banale perché, per esempio, non si potrebbe dire la stessa cosa dei ritratti di Rembrandt, ma neppure di quelli di Botticelli. La radice del percorso del Sanzio ritrattista nasce dall’ambito quattrocentesco guardando più a Perugino, però, di cui non si può non ricordare un quadro come il Ritratto di Francesco delle Opere che contiene in nuce molti dei suggerimenti che poi il giovane Raffaello svilupperà nei suoi capolavori. Non è un caso che sia stato proprio il XV secolo quello nel quale, in epoca moderna, prese piede il genere del ritratto, sull’onda di una crescita sociale e di una ricchezza diffusa che non era più solo appannaggio dei sovrani e della nobiltà, ma che si poteva finalmente allargare alla classe mercantile e agli artigiani benestanti, insomma a quella proto-borghesia a cui appartenevano pure Francesco delle Opere e la stessa famiglia del Sanzio.