Tra fine Ottocento e primo Novecento sembrano affastellarsi attorno a temi e soggetti ricorrenti le fantasie di molti artisti attratti dalla necessità di assimilare compiutamente e, soprattutto, liberamente le suggestioni e gli stimoli che dominavano l’orizzonte dell’arte di matrice simbolista. Non era meno impellente il bisogno di radicali rotture con una tradizione di cui si erano oramai smarrite le ragioni e il senso e che rivelava apertamente i suoi limiti.
Era però la cultura dell’Occidente che, nel suo insieme, era investita e sconquassata da un potente vento di crisi e di cambiamento. Era quella “tempesta” impigliata nelle ali dell’angelo della “modernità”, per usare l’immagine di Walter Benjamin a proposito dei celebri angeli di Klee, e che poteva essere denominata come progresso.
La forza di questa tensione era incontenibile: la letteratura, la musica e, naturalmente, le arti figurative si abbeveravano a questa fonte ciascuna traendo energia e dinamismo nella sua azione. Sullo sfondo, però, si profilava l’immane disastro del conflitto mondiale, la tragedia spaventosa e insensata della Grande guerra. Era come un mostro, un oscuro presagio: la comparsa di una creatura trionfante come in un’apocalisse inevitabile e oscura, figlia della morte e generatrice di morte.