l'arte
dei vincitori

Il giorno 4 novembre del 1918 alle ore 12, il generale Armando Diaz, capo del Comando supremo dell’esercito, diramò il bollettino della vittoria che iniziava con queste parole:

«La guerra contro l’ Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida d S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta»(46). Fu, per la giovane nazione italiana, il coronamento di un sogno a cui, con maggiore o minore determinazione, la penisola aspirava dalla fine dell’impero romano. La gioia fu immensa e, inevitabilmente, le premesse romantiche della «“religione della patria”» della quale parlava Chabod non poterono non avere riflessi sulla produzione artistica degli anni successivi al conflitto. I progetti si moltiplicarono, talora sfociando in una retorica dalla quale, però, nessuno voleva fuggire, ma a cui spesso si tendeva con giustificata soddisfazione. Il principale atto, in questo senso, fu la trasformazione, nel 1921, del monumento a Vittorio Emanuele II, che dal 1911 si ergeva sul lato meridionale di piazza Venezia a Roma, in sacrario al Milite ignoto facendolo divenire, così, l’Altare della patria. Il risultato fu che ogni città, ogni borgo della nazione vollero ricordare i propri eroi con piccoli o grandi monumenti ai caduti che punteggiarono, come fiori su un prato, il suolo sacro della penisola. Furono, così, coinvolti artisti e architetti di varia estrazione, accomunati, però, da un intento celebrativo giustamente encomiastico. Sebbene sia impossibile ricordarli tutti, non si può tacere il fenomeno e segnalare che le tipologie furono delle più varie, dal semplice obelisco con lo stemma della città come quello che si erge a Favara, in provincia di Agrigento, realizzato nel 1922, al centro di piazza Cavour, dagli scultori palermitani Francesco e Cosmo Sorge, al monumento vero e proprio come quello di Maser, vicino a Treviso, dove la bronzea allegoria della Patria e quella marmorea del caduto, realizzate nel 1923 dallo scultore Angelo Rossetto, trovano una collocazione fra le gigantesche schegge di roccia che alludono alle Alpi e al nostro territorio montano(47). È questo un modello che ebbe notevole successo e che troviamo diffuso lungo la penisola, con degli esempi di qualità come quello della cittadina di Veroli, vicino a Frosinone, realizzato nello stesso 1923 dallo scultore Vincenzo Jerace. Calabrese di nascita, ma formatosi a Napoli, nelle aule dell’Accademia di belle arti, apprezzato dai suoi contemporanei, Jerace interpretò con sensibilità simbolista e romantica insieme la tipologia del monumento ai caduti, trasformandola in una fontana nella quale è l’allegoria della Patria che dà da bere al soldato con le mani giunte che accoglie la sua acqua. Come dire: solo il sacrificio per la patria può togliere la sete di giustizia e di vittoria alla quale anelano gli italiani(48). Così, da nord a sud, ogni paese ebbe il suo sacrario che, nella versione più semplice, fu la lastra di marmo con i nomi dei caduti composti in lettere di bronzo, oppure solo incisi. Addirittura, come nel caso di Senigallia (Ancona), il ricordo è affidato a una frase encomiastica soltanto, anche se la lastra è affiancata da due allegorie bronzee della Vittoria e della Patria, realizzate dallo scultore Mentore Maltoni cui si deve pure il monumento ai caduti di Ancona, sua città natale(49). Nel Comune di Pontecurone, in provincia di Alessandria, una statua bronzea che quasi pareva la fusione iconografica fra la Vittoria e la Fama, caratterizza il monumento ai caduti, dando origine a un ibrido particolarmente efficace. La statua della Vittoria che planava su un pilastro come la Nike di Paionios fu un altro topos retorico che troviamo, per esempio, nel monumento di colle della Maddalena vicino a Torino, oppure a Gaeta, in provincia di Latina. La lista delle memorie ai caduti potrebbe allungarsi a dismisura e, a questo proposito, sarà bene ricordare che il tema appassionava gli italiani di allora, dividendoli fra coloro che temevano di scadere nella pura retorica e personaggi come il grande Ugo Ojetti che ribadiva il suo sostegno a queste iniziative considerate un vero e proprio «dovere» per onorare quei «sentimenti lodevoli e costumi antichi quanto l’umanità»(50). Fra gli artisti che parteciparono a questa sorta d’immensa celebrazione nazionale ci fu il romano Duilio Cambellotti che, fra il 1919 e il 1932, progettò e, in parte, eseguì opere a Priverno (Latina; 1919-1932), Terracina (Latina; 1920) e Fiuggi (Frosinone; 1926). Quest’ultima data è anche l’anno in cui s’inaugurò un altro monumento altamente simbolico della retorica patriottica: il complesso delle Sale delle bandiere di Castel Sant’Angelo a Roma.


Cerimonia per la consacrazione del monumento a Vittorio Emanuele II ad Altare della patria con la collocazione nel sacrario del feretro del Milite ignoto (4 novembre 1921).

Cartolina (prima del 1924) del Monumento ai caduti a Favara, in provincia di Agrigento, realizzato nel 1922, al centro di piazza Cavour, dagli scultori palermitani Francesco e Cosmo Sorge.