i "mal di pancia"
della storia

Nel suo celebre saggio dedicato all’idea di nazione, un classico della storiografia del Novecento, Federico Chabod individuava nel punto di passaggio fra la cultura illuministica

equella romantica la chiave di lettura per determinare l’atto di nascita di quel concetto(1). Non che in precedenza non si sapessero notare caratteri comuni, fisici e culturali, grazie ai quali raggruppare popoli ed etnie, ma il processo non necessariamente doveva sfociare nell’idea dell’unità nazionale come, per esempio, si può evincere dal pensiero di Dante il quale auspicava per l’Italia il ruolo di «giardino dell’impero», annegando così, di fatto, l’embrione del tratto nazionale nella grande cornice dell’apparato statale di Arrigo VII, più volte ricordato nella Divina commedia e nel De monarchia(2). Spiega, infatti, il grande storico aostano: «Il secolo XIX conosce quel che il Settecento ignorava: le “passioni nazionali”» e poi chiarisce che «la politica che nel Settecento era apparsa come un’arte, tutta calcolo […] tutta razionalità […] con l’Ottocento […] acquista l’impeto […] delle grandi passioni». Anzi, si spinge a dire, con ragione: «La politica acquista pathos religioso […] La “nazione” diventa la “patria”», quasi sconfinando nella mistica, sicché si finì per parlare di «"religione della patria", cioè della nazione. I due termini sono equivalenti: infatti, nell'unico stato antinazionale europeo, l'Impero austro-ungarico [...], la religione della patria fu sostituita dal culto della "dinastia" [...] La "nazione" diviene ora l'ideale da attuare nel prossimo avvenire». Di questo pensiero troviamo traccia, spiega lo storico, già negli scritti e negli ideali di un Alfieri o di un Foscolo per poi vederlo compiutamente formulato in Mazzini che enuncia il «principio di nazionalità» per il quale il concetto stesso di «nazione» passa dalla categoria del "sentimento" a quella della "volontà"; con non piccole conseguenze, aggiungiamo noi, sulla linea politica dell'Italia che, alla metà del secondo decennio del XX secolo, appunto, si scoprì interventista(3). Continua, poi, Chabod: «Com'è ovvio, l'idea di nazione sarà particolarmente cara ai popoli non ancora politicamente uniti [...] Quindi sarà soprattutto in Italia e in Germania che l'idea nazionale troverà assertori entusiasti e continui»(4). È appena il caso di ricordare che la nostra penisola, con i moti popolari e le guerre del Risorgimento ricucì la propria unità territoriale fra lacrime e sangue, nel 1861 (sebbene la presa di Roma si possa datare solo al 1870); mentre la Germania, con un percorso meno cruento, si strinse intorno alla Prussia per giungere all'unità poco meno di dieci anni più tardi, il 18 gennaio 1871, quando nella Sala degli specchi, a Versailles, Luigi di Baviera dichiarò Guglielmo I imperatore di Germania(5). Si tratta, perciò, di percorsi comuni che oggi possono sembrarci distanti, ma che in quegli anni si basavano su un sentire condiviso, bene esemplificato dalla celebre tela dipinta da Friedrich Overbeck nel 1811 e intitolata Italia e Germania. Un'opera così ammirata da essere quasi duplicata nel 1828 da Theodor Rehbenitz cognato di Overbeck non solo per omaggiare l'artista, ma pure per celebrare il rapporto fra le culture dei due paesi che, negli anni, si era andato rafforzando. Si pensi per esempio ai Deutsch Römer, i pittori tedeschi attivi a Roma nell’Ottocento che, come pure i Nazareni, loro connazionali, avevano ampiamente acquisito la nostra cultura artistica e letteraria grazie al lungo soggiorno italiano(6). Appare, così, assai opportuna la riflessione di Federico Chabod che conclude sull’Italia e la Germania, considerate «terre classiche, nella prima metà del secolo scorso [il XIX], dell’idea di nazionalità. E nell’una e nell’altra nazione, identici pure risuonavano gli appelli al proprio passato, alla storia come quella che, dimostrando la presenza secolare e gloriosa di una nazione italiana (o tedesca) in ogni campo, essenzialmente in quello della cultura, arte e pensiero, legittimava le aspirazioni a che questa presenza si concentrasse anche nel campo politico; a che cioè la nazione, da fatto puramente linguistico-culturale, si tramutasse in fatto politico divenendo “Stato”»(7). Si perviene, così, per evidenze, alla deduzione, da molti storici condivisa, che la prima guerra mondiale altro non sia che l’ultima delle guerre risorgimentali(8). Una convinzione, questa, considerata corretta già dai contemporanei come dimostrano le direttive del Comitato nazionale per la storia del Risorgimento che, senza mezzi termini, la definiva «quarta guerra d’Indipendenza»(9). Tuttavia, sarebbe questa una forzatura e una visione parziale, come si può ben intuire, perché, in realtà, essa rappresenta anche il distacco dal periodo risorgimentale, come spiega bene Brunello Vigezzi, uno dei grandi storici italiani, allievo di Chabod, che modulò e aggiornò la visione storiografica di Benedetto Croce: «L’appello al principio di nazionalità, l’irredentismo, la formula popolare della guerra per “Trento e Trieste”; in senso più ampio, la fiducia nelle virtù del patriottismo tradizionale; oppure la convinzione, più complessa e meno sicura di sé, di completare una missione storica, d’adempiere l’ultimo atto dell’“Italia liberale”, imponendosi all’Italia “rossa” o “nera”: tutti questi motivi ristabiliscono, certo, un legame con il periodo del Risorgimento.


Copertina della “Domenica del Corriere” , 5 luglio 1914 con la scena dell’attentato di Sarajevo.

François-Xavier Fabre, Ritratto di Vittorio Alfieri (1796); Montpellier, Musée Fabre.