Una cultura già prescelta e amata nella Bologna degli anni Dieci, a fianco di Morandi, e approfondita nel milieu artistico fiorentino - fra l’apertura europea della rivista “La Voce” e il futurismo lacerbiano - è ciò che Licini va a verificare di persona a Parigi subito dopo la sua volontaria partecipazione alla Grande guerra. Cézanne, il cubismo e tutto un filone letterario simbolista sono i presupposti della sua curiosità e voglia di conoscere.
«Alla Rotonde conobbi Picasso, Cocteau, Cendrars, Otiz, Kisling…». Ma sono gli incontri burrascosi con Modigliani nei caffè di Montparnasse, l’estasi
provata di fronte alle sue figure «incatenate a sogni», intraviste in una soffitta al lume di un cerino, a segnare definitivamente il suo amore
incondizionato per la pittura.
Vistosamente claudicante a causa di una ferita di guerra, Licini impugna un bastone in modo aggressivo (immagine che riprenderà nei suoi angeli)
recitando a memoria i Canti orfici di Dino Campana che si confondono con le feroci invettive di Rimbaud gridate da Modigliani.