Iprimi sostengono che servono eminentemente agli studi scientifici, artistici ed industriali; che dànno una spinta al progresso incessante dei vari rami dello scibile; che aiutano al gusto dei viaggi, per se stessi già tanta sorgente d’istruzione; che servono a sempre più riavvicinare i popoli, smussare, togliere le divergenze che possano esistere fra loro, facendo sì che meglio si conoscano e perciò meglio si apprezzino e s’amino. Gli altri invece, ragionano in un senso affatto opposto. Secondo essi, le Esposizioni sono per taluni dei grandi bazar commerciali, dove le scienze e gli studi seri sono rilegati al secondo piano, affinché non si pensi ad altro che al commercio comune e banale ed allo squattrinamento; e per altri delle grandi kermesse, dei luoghi di ritrovo più o meno divertenti ove il pubblico non si reca se non per cercarvi svago e piaceri».
Il brano è tratto dal volume di Giovanni Berri e Cesare Hanau, L’Esposizione mondiale del 1900 in Parigi, edito a Milano nel 1901. Si tratta di un’opera che si presenta come un libro in “stile 1900”, tanto nella veste grafica, quanto nel lessico e nella fotografia. Il fascino degli scatti del fotografo E. Fiorillo, necessariamente in bianco e nero, esaltano il già forte impatto cromatico degli acquerelli di R. Paoletti che, a sorpresa e in doppia pagina, si rivelano durante la lettura.Per presentare le Esposizioni universali, ho scelto le prime righe introduttive di questo testo, perché gli autori sono riusciti a descrivere, con efficace semplicità, l’antinomia che da sempre accompagna l’idea di questi eventi nell’immaginario collettivo, e perché, nelle loro parole, se ne riconosce ancora l’attualità delle intenzioni, degli obiettivi e del coinvolgimento planetario.
A distanza di più di un secolo, oggi a Milano, come allora a Parigi, l’Esposizione è ancora «un coagulante politico, un’affermazione di principio, l’occasione di un rilancio economico, in ogni caso una gran festa che occulta ed esorcizza le tensioni sociali, o anche solo le difficoltà della vita quotidiana»(1); e l’Italia sale da protagonista sul palcoscenico internazionale portando in scena, come da tradizione, un tema di grande interesse per il presente e per il futuro: «Nutrire il pianeta, energia per la vita».
Ciò non vuol dire che nel frattempo nulla sia cambiato. L’Esposizione universale è riuscita a sopravvivere adeguandosi ai tempi e rinnovandosi nel continuare a scandire la vita economica, politica, culturale e tecnologica del mondo, facendo proprie, di volta in volta, declinazioni differenti di quei ruoli che gli entusiasmi dell’epoca, di cui è figlia, le avevano attribuito, e assumendone di nuovi.
L’Esposizione universale, fin dalla sua genesi e per tutto l’Ottocento, si sviluppò secondo i modelli promossi da Londra e Parigi; capitali indiscusse del XIX secolo, come primedonne in rivalità, furono le protagoniste di una vera e propria gara internazionale, nella quale ogni Esposizione, in quanto espressione autocelebrativa dei propri successi, doveva superare la precedente, in ampiezza, capacità di richiamo e spettacolarità. Si parla di un vero «monopolio londinese e parigino» che Luca Massidda, con ragione, chiama «imperfetto», perché interrotto dalle Esposizioni universali d’oltreoceano (per ricordare le più significative: Filadelfia 1876 e Chicago 1893).
Con quest’ultima, si registrò un cambio di scena: gli Stati Uniti d’America avanzarono, guadagnandosi, con l’Europa, lo scettro nelle Esposizioni del primo cinquantennio del secolo successivo, per poi condividerlo, fino a oggi, anche con l’Asia orientale.


