la copiosa produzione d'immagini cui LaChapelle ci ha abituato insegue il sogno euforico di fotografare un
decennio a cavallo del nuovo millennio. Dal 1995 al 2005 ritrae un gran numero di star del cinema, della musica e degli ambienti underground, di
volti noti e stelle nascenti, personaggi della politica e testimonial della moda. Contestualmente immagina scenari strabilianti, molte volte al
limite dell’inverosimile. I suoi sogni post-pop sono costruiti attraverso un impianto scenico di tipo teatrale, ma che nell’impatto dell’opera
finale produce la sensazione di un fermo immagine cinematografico. Il suo è un sogno finto per una realtà vera. Come egli stesso ebbe a dire «anche
se si trattava di fantasie esagerate, quello era quanto accadeva nel mondo».
Negli anni Novanta LaChapelle è stato tra i protagonisti di una
visione dell’arte che ha fatto proprio della dissoluzione della realtà un punto di riferimento per un’analisi sociale già oggetto di attenzione
della filosofia e della sociologia. Questo lo ha portato a scardinare gli assiomi della fotografia di moda e commerciale, in una prospettiva che ha
amplificato la lezione di Andy Warhol. In altre parole egli ha portato alle estreme conseguenze quella deriva estetizzante globale della società
contemporanea di cui lo stesso Warhol aveva intuito il germe negli Stati Uniti degli anni Settanta.
Le immagini di LaChapelle sono immagini
incredibilmente reali che, come per molti artisti della sua generazione, esprimono verità attraverso il paradosso e con un impatto surreale.
Nei cicli fotografici dell’artista, temi come la catastrofe, la decadenza, la vanitas, la malattia, la morte, la pietà trovano massima enfasi
mescolandosi a quelli del consumismo e delle nevrosi compulsive, dei feticismi e delle ossessioni narcisiste. Con essi la rivisitazione della storia
dell’arte compone un potente dispositivo di riflessione perché sovrappone l’estasi della visione, tipica delle grandi opere del passato, alla
registrazione lucida del presente, del dramma di un’umanità in cerca della ragione della propria esistenza. In questa pratica poetica, un punto di
svolta nella carriera artistica di LaChapelle è The Deluge.
Un presente proiettato nel futuro dove immaginazioni
e allucinazioni antiche prendono forme attraenti
LaChapelle dà tangibilità al racconto della fine e della rinascita fissandolo in una scena congelata che parla di naufragio e di salvezza. Costruisce un imponente e complicato impianto scenografico degno di un maestro del manierismo classico, un set da colossal dove uomini e donne, giovani, vecchi, bambini si aggrappano ai relitti di un mondo che affonda tra le sue stesse insegne e formano una catena di nodi plastici perfettamente definiti, scolpiti. Intorno a essi i simboli dell’establishment internazionale crollano come templi consacrati al vuoto. Per realizzare questa gigantesca opera, LaChapelle ha suddiviso la scena in tre parti, fotografando mediante più scatti un gruppo limitato di attori per volta, ha poi ricomposto la panoramica totale del soggetto come in un’unica inquadratura della fotocamera. In questo modo non solo l’artista restituisce alla fotografia la funzione storica degli affreschi, ma anche il procedimento, rivisitandolo: quell’approccio che richiedeva di ripartire la superficie della composizione in “giornate”, ovvero in isole pittoriche eseguibili nell’arco di un giorno.
The Deluge è un giro di boa, la produzione del fotografo americano da quel momento si volge verso altre direzioni estetiche e concettuali. Il segnale più evidente del cambiamento è la scomparsa di presenze umane: i modelli viventi che in tutti i lavori precedenti (unica eccezione è The Electric Chair del 2001, prepersonale interpretazione del celebre lavoro di Andy Warhol) hanno avuto una parte centrale nella composizione del set e nel messaggio incarnato dall’immagine, spariscono. Le serie Car Crash, Negative Currencies, Earth Laughs in Flowers, Gas Stations, Land Scapes, fino alla più recente Aristocracy, seguono questa nuova scelta formale: LaChapelle cancella clamorosamente la carne, elemento caratterizzante della sua arte. Elimina quello che costituiva il punto di riferimento intorno al quale ruotavano i suoi temi, il più oggettivo al quale rimanere disperatamente ancorati: il corpo.
Ne troviamo soltanto un simulacro orrorifico nei frammenti di cera della serie Still Life (2009-2012). Il ciclo Still Life, col suo titolo emblematico, non ritrae più lo star system ma le sue effigi inanimate. Le riproduzioni in cera di Ronald Reagan, di Cameron Diaz, di Michael Jackson, della principessa Diana, di Theodore Roosvelt, di Bono Vox e di molte altre celebrità, viventi e non, giacciono scomposte in più pezzi assemblati alla meglio su cartoni da imballaggio dopo che un pesante atto di vandalismo ne ha deturpato il già macabro simulacro da museo delle cere. Una rappresentazione inquietante e iperreale del disfacimento e della corruttibilità dei corpi che si estende anche alle icone e alla loro celebrazione, tanto più inquietante se si pensa che molti dei personaggi cui fa riferimento la serie sono stati in passato fotografati da LaChapelle. Una volta sgretolato il ruolo mediatore dell’organismo umano nell’esperienza fra l’io e il mondo, l’individuo (e il suo corpo) è sostituito dal simulacro.
Tra le produzioni più recenti di David LaChapelle spiccano le serie Land Scapes e Gas Stations. Land Scapes mostra delle centrali industriali che svettano come miraggi luminosi sullo sfondo di orizzonti desertici dai cieli sfumati nei colori di albe variopinte. Questi impianti, coi loro complessi in acciaio lucido, le reti labirintiche delle condutture, le rampe aeree, i silos, le torri e le ciminiere fiammeggianti sono agglomerati luccicanti e bellissimi, che riportano alla mente il sogno incandescente e ipnotico di una metropoli futuribile.
Guardando ai soggetti si penserebbe a vedute in scala naturale e invece queste città industriali sono il risultato di un incredibile lavoro di ricostruzione messo a punto insieme a una squadra di modellisti cinematografici assemblando oggetti e materiali di riciclo di piccolo formato, come bicchieri di plastica, bigodini, cartoni per le uova, caricabatterie, cannucce, lattine e contenitori di vario tipo: sono modelli che LaChapelle ha fotografato sullo sfondo di paesaggi veri come il deserto californiano.
Il monito ecologico di LaChapelle sullo sfruttamento delle risorse naturali da parte dell’uomo non assume i toni della denuncia morale, descrive un presente proiettato nel futuro dove immaginazioni e allucinazioni antiche prendono forme attraenti. È lampante nell’esuberanza formale e cromatica di Earth Laughs in Flowers, serie di nature morte floreali dichiaratamente ispirate alla tradizione fiamminga e barocca, il cui titolo enfatizza fino al parossismo il tema dei fiori intesi come sberleffo della terra nei confronti del genere umano e della sua arroganza.
Quello stesso monito avverte che la natura si prenderà la sua rivincita, una rivincita che, come in tutta l’opera di LaChapelle, non ha nulla di crudele e anzi si tinge di note surreali catturandoci: la serie Gas Stations gioca sull’effetto straniante di particolari scorci paesaggistici, mostrando delle stazioni per il rifornimento di carburante che sorgono isolate nel mezzo di una fitta vegetazione tropicale. Nell’era postproduttivista lo sfruttamento delle risorse del pianeta, insieme agli effetti delle politiche energetiche, hanno prodotto l’estinzione della civiltà di cui permangono testimonianze in questi reperti scintillanti: il sogno pop si è trasformato in un’allucinazione.





