un’enorme tartaruga in bronzo, situata ai piedi del castello, si è aggiunta al bestiario locale della città di
Namur, nel Belgio vallone, dove già si contavano un gallo, delle lumache e soprattutto un maiale accompagnato dalla sua maîtresse. «Se dovessi
rubare un’opera in un museo», dichiarava Jan Fabre in un’intervista del 2011, «sarebbe Pornocratès di Félicien Rops». Così la città natale
di quest’ultimo invita il più noto artista contemporaneo fiammingo a un incontro postumo con Félicien Rops (1833-1898). Questo artificio
artistico-letterario accompagna l’intero percorso espositivo, che si svolge come una passeggiata tra il Musée Rops, la Maison de la Culture e
l’intera città, nella mostra Facing Time. L’incontro tra i due artisti appare letteralmente come uno “stare di fronte”: l’uno all’altro
prima di tutto e, successivamente, al Tempo. Le loro opere, accostate, si sovrappongono e, nonostante la distanza fra loro sia di quasi
centocinquant’anni, sembrano talvolta scambiarsi. Più di quattromila lettere scritte dal pittore e disegnatore simbolista aiutano a immaginare cosa
avrebbero potuto dirsi se si fossero incontrati. Comincia Fabre: «Caro Félicien Rops, ti ringrazio per il generoso invito. Non solo mi accogli nel
tuo museo, ma anche nella tua città natale, Namur, che io conosco bene perché nella seconda metà degli anni Ottanta venivo spesso al Casinò per
giocare a black-jack [...]. A quell’epoca la tua reputazione scandalosa era ancora un ostacolo per il grande pubblico». Rops è infatti a lungo
rimasto l’“enfant terrible” del Belgio, allo stesso modo in cui fin dagli esordi della sua carriera lo stesso Fabre ha riempito le pagine di
critiche con le sue opere provocatorie.
Fabre conosce l’opera di Rops già dagli anni Settanta, quando era studente di Belle arti ad
Anversa. Ciò che lo seduce fin dall’inizio è il suo modo di mostrare una bellezza non idealizzata, una “bellezza mortale”, profondamente legata al
corpo, nella quale egli passa dal realismo all’allegoria integrando simboli di vita, di morte, di seduzione, come anche caricature del mondo
borghese. «Ciò che odio di più al mondo è il borghese dottrinario che mi sembra per il momento onnipotente in Belgio», scrive Rops in una delle sue
corrispondenze. L’ambiente parigino, raggiunto a partire dal 1860 con lo scopo di farsi un nome nel mondo dell’editoria, si addice maggiormente alla
sua indole libertina. Sedotto dalla vita notturna della “ville lumière”, diventa assiduo frequentatore dei boulevard, dove lui stesso dichiara di
fare «bagni di fuoco». Rappresenta i soggetti più scabrosi: l’alcolismo delle donne, la prostituzione, organi sessuali, ma il suo scopo non sembra
solamente quello di opporsi alla morale comune quanto piuttosto quello di mostrare, attraverso una visione penetrante del corpo, le zone oscure
dell’anima, del desiderio, del piacere e della morte. Sono gli stessi temi che riappaiono nella straripante creatività di Fabre.
I due artisti
parlano lo stesso linguaggio simbolico, che ognuno declina seguendo le tecniche della propria epoca: disegni, sculture, teatro e performance per il
nostro contemporaneo; lettere, disegni, incisioni e pitture per il simbolista. E proprio grazie all’eccellente abilità tecnica, Rops illustra il
frontespizio dei Relitti di Charles Baudelaire e diventa uno degli illustratori più importanti della capitale francese. La passione che
Rops dice di condividere con il poeta “maledetto”(1) sembra descrivere perfettamente la relazione con Fabre: «Ci siamo incontrati grazie
a uno strano amore, l’amore della forma cristallografica per eccellenza: la passione per lo scheletro». Anche l’artista fiammingo condivide questa
passione. Lo scheletro costituisce per entrambi un modo di rappresentare il legame tra la vita e la morte, inteso come un legame vitale di
trasformazione e mutamento. Nell’opera Coda l’osso sacro, centro dell’energia vitale e sessuale, diventa una maschera mortuaria simbolo del
passaggio dall’animale all’uomo. L’incontro con l’animalità è costante in Fabre. L’opera Chapitres mostra una serie di diciotto
autoritratti in bronzo (e altrettanti in cera, non presenti a Namur) nei quali l’artista si rappresenta con attributi animali. Queste figure ibride
hanno lo stesso sapore mitologico di quelle che Rops rappresenta nei Satanici, serie di dipinti che narrano la storia della possessione della donna
da parte di un diavolo bestializzato. La metamorfosi è un altro grande tema. L’animale feticcio di Fabre è lo scarabeo, utilizzato copiosamente per
ricoprire le sue opere(2) o scolpito nella serie Chalcosoma. Scrive Rops: «Bisogna che mi rinnovi continuamente, ho bisogno di cambiare
di carapace»(3). È la stessa idea di continua rinascita che si ritrova in Fabre. L’artista deve morire per rinascere, oppure, come
suggerisce ironicamente con l’opera Ik Laat Mezelf Leeglopen (Mi svuoto di me stesso) dopo aver sbattuto contro il muro della storia deve
svuotarsi del proprio sangue per poter nuovamente creare. Ecco allora che la sua nuova mitologia, plasmata nel lucido bronzo, invade l’intera città
e l’artista, nelle spoglie di un mistico contemporaneo, si rapporta poeticamente all’infinito “dirigendo le stelle” dal teatro che ospita i suoi
spettacoli, “misurando le nuvole” in cima a una scala alla porta della Cittadella, o “cercando l’utopia” sul dorso della tartaruga gigante che
citavamo all’inizio. E con un effetto altrettanto mistico allinea tre dei suoi messaggeri, gli scarabei simboli di eterna rinascita e
trasformazione, nella chiesa di Saint-Loup dove Baudelaire, proprio accompagnato da Rops, subì l’ictus che lo portò pochi anni dopo alla morte.
Benché il rapporto con la storia sia per Jan Fabre fondamentale - «sono nato in una terra di giganti: la stessa di Rubens, Van Dyck, Van Eyck, Rops,
Magritte» -, la mostra restituisce un’idea del tempo inteso non tanto come successione di istanti quanto come circolo vitale e naturale dove vita e
morte si susseguono, si scambiano, si incontrano.


