nessuno dei due era italiano di nascita; eppure entrambi amavano tantissimo l’arte della penisola. Alfredo Dusmet
de Smours, nobile famiglia napoletana di ascendenza belga - anche con un santo, a suo tempo arcivescovo di Catania -, era nato a Parigi nel 1879; e
Edith Oliver, sua moglie dal 1904, era americana. Vivevano a Roma, in una splendida villa in via Abruzzi 15, quartiere Ludovisi, purtroppo demolita
in piena febbre edilizia negli anni Sessanta: alcune foto, ahinoi soltanto in bianco e nero, ne raccontano lo sfarzo e l’eleganza. Erano fini
intellettuali e grandi collezionisti; tra l’altro, lei aveva scritto un romanzo dedicato all’Etruria, ed era stata ritratta, tra gli anni Venti e
Trenta, da Vittorio Matteo Corcos in un quadro alto due metri e largo uno e mezzo, che in una foto appare ancora appeso, in fondo, in un salone.
Grandi collezionisti e grandi donatori: dal 1949, infatti, lasciano quadri, arazzi, porcellane e mobili a palazzo Barberini, appena comperato dallo
Stato su volere dell’allora ministro Guido Gonella per farne la Galleria nazionale d’arte moderna; il secondo piano era destinato a Museo di arti
decorative. Serviranno decenni per liberare buona parte degli spazi dal Circolo ufficiali delle Forze armate: operazione compiuta appena nel 2009,
con gli ultimi 700 metri quadrati restituiti solo nel gennaio 2015. Il Museo di arti decorative, invece, non è mai nato: qualcosa esiste nel villino
Boncompagni, però in scala assai più ridotta del previsto. Accanto ai suoi pezzi, nei magazzini, sono confluiti anche quelli del Museo artistico
industriale, chiuso durante la seconda guerra mondiale.
Museo nato quando Roma da appena tre anni era divenuta capitale: nel 1873, alcuni
privati, tra cui il principe Baldassarre Odescalchi e Augusto Castellani, della celebrata famiglia di orafi, l’avevano istituito nell’ex convento di
San Lorenzo in Lucina. Ma dura poco. Riapre al Collegio romano, dove ora è la sede del Ministero dei beni culturali; diventa “Museo del Medioevo e
Rinascimento per lo studio dell’arte applicata all’industria”: dà vita anche a tre scuole e quattro mostre; ma nel 1922 emigra in via Conte Verde, e
nel 1950 viene smembrato. Al Comune di Roma vanno i pezzi d’arte classica e i calchi in gesso, destinati al Museo della civiltà romana; armi e
matrici in legno sono trasferiti al Museo di castel Sant’Angelo; oggetti diversi, tra cui anche una collezione di chiavi e serrature, al Museo di
palazzo Venezia. Neppure la metà delle quattrocento maioliche, tra cui quelle Dusmet, è ormai esposta a palazzo Barberini. Ben poco è visibile pure
della collezione di Evan Gorga, il primo interprete della Bohème diretta da Arturo Toscanini (ne ricavò dieci corone d’alloro, una mazza da
passeggio, un orologio da tavolo, due catene d’oro, portasigarette, altri omaggi; Pietro Mascagni domandò a Giacomo Puccini: «Ma quel tenore te lo
sei fabbricato apposta?», tanto il suo Rodolfo impressionava; poi, però, inspiegabilmente, si ritirò): centocinquantamila reperti di ogni tipo ed
età, in dieci appartamenti affittati apposta. Già nel 1930, la raccolta aveva, a cifre attualizzate nel 2008, un valore superiore a più di quindici
milioni di euro.
E il ritratto di Corcos?
Non ha nulla da invidiare a quelli in cui eternò
le donne più famose dei suoi tempi
Ma torniamo ai Dusmet: la prima donazione, di Edith per testamento, non è la sola. Nel 1959, il marito, che se ne sarebbe andato cinque anni dopo, vi aggiunge tanto altro. Dona molto anche alla Biblioteca di archeologia e storia dell’arte: 169 disegni e 159 stampe dal XVI secolo in poi; 550 preziosi e rari volumi: antichi trattati di Vitruvio, Alberti e Palladio, l’incunabolo della Guerra giudaica di Giuseppe Flavio (1499). Il marchese Alfredo, anche in memoria del fratello Giovanni morto nel 1917 sul Piave, nel 1926 aveva finanziato il monumento ai caduti di Grottaferrata, dove possedeva una bella villa, comperata dal nonno del regista Roberto Rossellini nel 1919: diverrà comando della Royal Air Force durante la guerra, e sarà poi rilevata dalle suore. Secondo un parente, la direzione del museo, a suo tempo, aveva anche stipulato un accordo con gli eredi, che erano il marchese Giacomo Dusmet e la moglie Genoveffa Borghese, senza discendenti, e per loro i figli delle sorelle Maria Editta Dusmet, duchessa Lante della Rovere e proprietaria dell’omonima villa a Bagnaia, Amelia Lante della Rovere sposata Odescalchi, alcuni membri della famiglia Campello: la collezione sarebbe stata esposta, senza essere smembrata, nella parte di palazzo Barberini già del Circolo ufficiali. Ma, anche qui, non se n’è fatto nulla.
E il ritratto di Corcos? Non ha nulla da invidiare a quelli in cui l’artista eternò le donne più famose dei suoi tempi: da Maria José di Savoia (1931), a Lina Cavalieri (1903), a Isadora Duncan (1910), alla principessa Madda Spada Potenziani nata Papadopoli Aldobrandini (1903), a tante altre contesse e teste variamente coronate. Tanto bello il quadro di Edith Dusmet de Smours, che Sandro Bondi lo volle a lungo, quando era ministro proprio dei Beni culturali, nel corridoio davanti al suo ufficio: poco gli importava, evidentemente, di declassare un capolavoro dell’arte a oggetto di puro arredamento. Destino singolare: una mostra e finisce di nuovo relegato in un deposito, dice la direttrice di palazzo Barberini, Cinzia Ammannato.
Un’altra storia gustosa, però, la racconta Roberto Ruggi d’Aragona, che si occupa molto del museo intitolato allo zio Carlo Bilotti, a Roma, e al castello di Rende ne ha fondato uno d’arte contemporanea: intendeva cedere allo Stato un ritratto del cardinale Vincenzo Altieri Borromeo, del Settecento. Dal 2003 era esposto, con altri, nel palazzo Altieri di Oriolo Romano, nella sala del museo detta appunto “dei cardinali”: «In attesa che fossero perfezionate le pratiche, a un certo punto il dipinto è stato voltato faccia al muro. Mi hanno spiegato: per evitare problemi di diritti di riproduzione, se qualcuno lo avesse fotografato. Poi, per fortuna, è tornato alla sua posizione naturale; ma soltanto dopo una liberatoria da parte mia».
In Italia, del resto, queste pratiche hanno da sempre tempi biblici. Un artista famoso come Alberto Burri, per ottenere uno sgravio fiscale di un miliardo (quando erano ancora in vigore le lire) in cambio di dieci Cellotex, già da tempo prestati alla Galleria nazionale d’arte moderna dove erano esposti, dovette penare dieci anni. E gli eredi di Riccardo Jucker, un celebre collezionista e imprenditore milanese (per cinquant’anni al vertice del cotonificio Cantoni), stufi di aspettare una risposta dello Stato all’offerta di pagare con dipinti le tasse di successione, ritirarono la proposta dopo alcuni anni. Venne in soccorso una banca: sborsò quarantasette miliardi del tempo e ora i loro Kandinskij, Klee, Mondrian, Matisse, Modigliani, Morandi, Balla, Depero, Boccioni e compagnia dipingente sono finalmente, dopo una lunga e penosa eclissi, al Museo del Novecento di Milano. Purtroppo separati da un’altra grandissima collezione di analoga formazione meneghina: quella, assai simile, di Emilio e Maria Jesi, che è invece esposta, dodici sculture e sessantotto dipinti, alla pinacoteca di Brera. Perché la legge di defiscalizzazione approvata nel 1982 (roba da archeologia istituzionale: erano ministri Vincenzo Scotti e Rino Formica) gode di un primato assoluto: è l’unica a non avere mai avuto un regolamento d’applicazione in grado, appunto, di farla applicare; adesso, con le recenti misure dell’“Art bonus” che il ministro Dario Franceschini ha varato, si spera che vada meglio: staremo a vedere. Ma intanto si moltiplicano i casi in cui lo Stato non si comporta, diciamo così, come si dovrebbe con chi, a qualsiasi titolo, gli offre opere d’arte. In Campania, una storia singolare riguarda l’eredità del barone Giovanni Paolo Quintieri, creatore della Banca di Calabria, con suo cugino Quinto, ministro delle Finanze nel governo Badoglio; il padre era stato sei volte deputato del Regno. Se ne va nel 1970, e nomina unico erede l’istituto per ciechi Paolo Colosimo di Napoli che, nel 1979, passa alla Regione. Una cugina dei Quintieri, Erminia, era la bisnonna di Roberto Ruggi: «Il patrimonio era immenso, nell’Italia del Sud e a Roma: anche cinquantasette appartamenti in via Panama, ai Parioli; a Passerano, vicino a Zagarolo, un castello con mille ettari di verde; altri castelli e tenute in Abruzzo e in Calabria; una grande villa a Carolei, da cui proveniva la famiglia, palazzi a Cosenza». La quadreria di 650 opere annoverava addirittura un Ritratto di gentiluomo a mezzo busto di Rembrandt del 1635, con opere di Guercino e caravaggeschi napoletani. Nel 1966, l’inventario dell’eredità era di oltre ottocento voci. Bene: da quando tutto è passato alla Regione, agli ospiti dell’istituto per ciechi sarebbero giunti appena seicento milioni all’anno, ancora ai tempi delle lire. Interrogazioni, proteste, una vicenda ancora in parte oscura. Così lo Stato ringrazia i privati che gli offrono le proprie opere d’arte: talora, c’è un po’ da vergognarsi