Per lungo tempo l’antropologia e l’etnografia si sono presentate e identificate come discipline focalizzate sullo studio delle società primitive e fondate su un principio di arrogante comprensione dell’“altro”. La cultura occidentale, con il suo afflato intimamente colonialista, sembra avere costantemente cercato e abusato di una certa celebrazione del sentimento esotico, del diverso e della differenza. La ricerca antropologica contemporanea e il dibattito filosofico sviluppato dalla teoria postcoloniale negli ultimi decenni hanno certamente contribuito a criticare questa visione e a superare un’epistemologia esclusivamente occidente-centrica.
Il nuovo crescente interesse nell’arte africana, promosso dal mercato europeo e americano con la stessa retorica etnografica e con una simile operazione di traduzione e di appiattimento su parametri occidentali, rischia però talvolta di neutralizzare l’importanza di certi discorsi emancipatori e del principio di autodeterminazione culturale per cui alcuni degli artisti di oggi attivi nel continente africano si battono.
Rifacendosi alla letteratura postcoloniale più radicale, dalla Critica della ragione postcoloniale(1) di Gayatri Chakravorty Spivak fino alla Postcolonial Melancholia(2) di Paul Gilroy, il poeta e teorico nigeriano Esiaba Irobi si è più volte concentrato sulla questione della violenza epistemica del colonialismo e dell’imperialismo, interrogandosi sulla possibilità di ripensare i dispositivi del sapere e le cartografie del potere da una prospettiva nera e africana. Nel saggio The Problem with Post- Colonial Theory: Re-Theorizing African Performance, Orature and Literature in the Age of Globalization and Diaspora Studies(3) pubblicato nel 2008 poco prima della sua morte prematura, Irobi solleva il problema del paradosso di un discorso postcoloniale obbligato a parlare la lingua dell’Occidente e plasmato su un’ontologia circoscritta a categorie prettamente occidentali.
Le culture orali hanno sempre preferito la codificazione delle esperienze artistiche attraverso la narrazione verbale e – soprattutto – attraverso il corpo
Concentrandosi sullo studio della performance e delle arti performative in genere, Irobi si domanda quanto sia legittimo considerare l’accademia occidentale come il luogo in grado di fornire l’occasione e le infrastrutture linguistiche per teorizzare l’arte africana performativa, e scrive: «Vogliamo dire che le comunità africane, le cui creazioni teatrali eguagliano i Greci nella loro complessità mitopoietica e nella loro sofisticatezza polisemica, sono incapaci di teorizzare le loro - proprie - arti performative?»(4). Come d’altronde aveva già sostenuto lo scrittore keniano Ngugi wa Thiong’o in Decolonising the Mind: the Politics of Language in African Literature (1986), Irobi insiste sull’importanza di elaborare queste riflessioni nelle lingue indigene e sul ruolo cruciale che la lingua e il linguaggio rivestono nella complessa operazione di decolonizzazione della mente di popolazioni che sono state vittime della colonizzazione.
