Primitivismo e deformazione nel primo Novecento italiano? Certo, nonostante che alcuni critici di oggi non siano d’accordo. Mi si dirà che cominciare un articolo con una domanda non va bene, che non è conveniente e che non risponde a una scientificità corretta. Non è detto però che le “critiche” siano sempre giuste. Vi pare possibile, da un punto di vista fenomenologico - quello che pone gli stili al di sopra delle singole esperienze, quello che dimostra che in generale le varie generazioni di artisti presentano caratteristiche simili -, vi pare possibile, dicevo, che gli artisti italiani possano essere diversi dagli altri, in particolare dai colleghi d’oltralpe? Mi sembra corretto pensare che esistano precise omologie, anche se articolate secondo principi diversi(1).
In varie occasioni ho cercato di focalizzare l’attenzione sulla cultura toscana, che risulta un’ottima officina di primitivismo e deformazione. Mi è sembrato giusto spostare il dibattito verso l’inizio del Novecento e non, come spesso si sostiene, verso la fine del secondo decennio. Il Carrà “arrabbiato”, dopo il periodo futurista, non apre ma chiude un periodo espressionista, con cinque dei suoi lavori più importanti, fra i quali La carrozzella (1916). Poco più tardi infatti Carrà si calmerà sulla scia degli studi compiuti nel 1916 su Giotto e Paolo Uccello. Ciò avviene due anni dopo avere sottolineato su “Lacerba” (15 marzo del 1914) la grande importanza della deformazione in pittura, che porta il quadro a una sintesi di costruzione «rompendo gli schemi prospettici [e] deformando la realtà apparente». Soffici, grande oppositore delle soluzioni espressioniste, non capisce questo imbarbarimento basato su «un nuovo carattere infantile» e rimprovera all’amico il «primitivismo di quella specie» e «il salto violento nel primordiale».
Del resto, la molla della deformazione espressionista ritorna ciclicamente. Si tratta di una retrogradazione di linguaggio, la stessa che, riferendosi al Quattrocento, impostano prima Fattori, poi de Chirico e molti artisti del “ritorno all’ordine”. «Tengo a essere retrogrado e sto con gli antichi che ci sto bene», diceva il livornese. Così come, più tardi, lo stesso de Chirico mette in campo un ritorno al Quattrocento secondo un principio di «originarietà». Negli anni Trenta la rivolta antinovecentista gioca il «primordio » di Corrado Cagli, l’espressionismo di Scipione quasi avvolto in una placenta infuocata, quello agitato di Mario Mafai e di Antonietta Raphaël, cui si aggiunge il primitivismo a volte incantato dei milanesi (Tullio Garbari, Renato Birolli, Francesco De Rocchi…) o dei Sei di Torino. Ricordiamo pure l’Art Brut di Jean Dubuffet e certo espressionismo astratto americano, fino alle trasgressioni della Transavanguardia. Ultimamente poi parlano di espressionismo le riprese di esperienze africane e il selvaggio bagaglio dei writers.
