bordighera, villa Margherita: fatta edificare dalla regina madre all’architetto Luigi Broggi per passarci
l’estate, dopo che le avevano ucciso il marito, Umberto I di Savoia, nel 1900. A Roma, va a vivere nel palazzo che ancora ne porta il nome in via
Veneto (oggi ambasciata degli Stati Uniti) ultimo lacerto della villa Ludovisi insieme al casino che contiene l’unico dipinto murale di Caravaggio
(Giove, Nettuno e Plutone: tre autoritratti visti dal basso) e l’Aurora di Guercino. Ma la sovrana dai fili di perle lunghissimi e famosi (pare che
il sovrano gliene donasse uno a ogni avventura) amava il mare: in riviera, dalla camera da letto, dal 1915 ce l’aveva proprio davanti. Dopo la sua
scomparsa nel 1926, il luogo diventa casa di soggiorno per le famiglie dei caduti in guerra: la prima mondiale. Il sindaco della città nel 2007 ha
un’idea: va a chiedere aiuto al “re del nichel” o “Goldfinger”, come era chiamato Guido Angelo Terruzzi, «il più grande e generoso collezionista
d’arte italiana e mobili europei degli ultimi cinquant’anni», dice Vittorio Sgarbi. Figlio di un “rotamat”, che raccoglieva materiali ferrosi, nel
1970 era il finanziere più dotato di liquidità in Italia. E compera arte: «Forse cinquemila pezzi», ricorda a memoria Annalisa Scarpa, che ne cura
la collezione. “Goldfinger” se ne va nel 2009. Ha fatto in tempo ad acquistare anche il primo ciclo di Tiepolo per una casa veneziana, i tre dipinti
di palazzo Sandi e i due Niccolò Bambini che gli facevano compagnia (sono a Roma, nella hall del suo hotel Cavalieri, ex Hilton); a lottare (invano:
vincerà François Pinault) per avere palazzo Grassi a Venezia dove esporre la raccolta; a decidere per Bordighera.
Annalisa Scarpa c’era: «Il
sindaco dice a Terruzzi: se ci dà i quadri, comperiamo la villa. Andiamo a vederla. È in pessime condizioni. Ma gli piace tantissimo ». Terruzzi
decide di finanziarne lui i restauri, perché siano eseguiti secondo la sua volontà; offre in comodato trentennale circa milletrecento dei suoi
pezzi. Preventivo dei lavori, tre milioni di euro; spesi, quasi otto. Massima cura nell’allestimento: «Opere italiane, ma mobili anche francesi; per
esempio, nella stanza della regina, allevata anche alla moda di Oltralpe ». Terruzzi compera perfino dei pezzi apposta: «Come il servizio Minghetti,
381 oggetti con alcuni immensi come le fruttiere, creato per le nozze di un Orléans: occupava il salone del terzo e ultimo piano; ovviamente, era
notificato». Ma il “re del nichel” non vede la sua creatura, allestita da Michelangelo Lupo: apre nel 2011. «Già all’inizio si capiva», continua
Scarpa, «che qualcosa non andava per il meglio. Le spese di gestione erano a carico di Comune e Provincia, il 30 e 70 %. Su tre piani, trentaquattro
sale, e il seminterrato per le mostre, le conferenze, e altre attività. Anche una supercucina, per eventuali eventi legati al museo, magari in
terrazza». Dai calcoli di Scarpa e dei Terruzzi, il museo sarebbe costato almeno ottocentomila euro all’anno. «Ma sono stati sempre di meno, e i
fondi si sono via via ridotti»; subito, poco più che la metà. Minore vigilanza; da duecentocinquantamila, passa ad appena ventimila euro l’apporto
della Provincia: il resto pagato in servizi, come i vigilantes per sostituire quelli titolari due giorni alla settimana. Forse, qualcuno pensava che
un museo si può mantenere con i biglietti d’ingresso: neppure il Louvre, o il Metropolitan ci riescono. Alla fine, il vicedirettore Marcello
Sardelli dormiva nella villa, e garantiva un turno di custodia. L’attuale sindaco Giacomo Pallanca ammette: «Fin dall’apertura il problema dei
contributi è sorto». Valutazioni errate? Probabile.
«Una grossa rabbia dentro: il tempo speso,
il lavoro, le speranze, il terribile smontaggio
di un sogno in due settimane»
Il segnale dell’addio arriva con le inondazioni in Liguria, del novembre 2014. Crolla un terzo del muro di cinta. Museo inagibile per alcuni mesi. I detriti, portati via. Un perito parla di un milione di euro per i lavori. «Proponiamo di fare qualcosa di più limitato, per poter almeno riaprire», dice Scarpa; qualcuno valuta anche che il restauro, con un terzo della spesa, si potrebbe eseguire. «Intanto, da mesi, non arriva più un soldo: la gestione va avanti per le erogazioni liberali dei Terruzzi». A primavera il consiglio d’amministrazione decide la chiusura definitiva. «In quindici giorni, si smonta tutto. Un effetto terribile. Un’aria da funerale. Il magone degli stessi operai di Arteria che, tre anni prima, avevano allestito il museo». Chiuso in casse tutto ciò che rendeva la villa «un lieu exceptionnel», come aveva lasciato scritto Alberto di Monaco. Da Bartolomeo Vivarini ai Carracci, Luca Giordano, Jusepe Ribera, la Danae di Giovanni Baglione, i tripudi di mobili e le consolles; i quattromilacinquecento libri comperati apposta dalla famiglia. Al macero, o agli archivi, la Guida al museo, edita da Skira, duecento pagine. Le prefazioni sono gustose: l’allora presidente della Regione, Claudio Burlando: «Nuova prestigiosa realtà, una delle più importanti operazioni culturali negli ultimi anni in Liguria»; e i commissari del Comune, tra un sindaco e l’altro (era stato sciolto per mafia): «Uno dei più prestigiosi poli museali europei, Bordighera è pronta a sostenere l’impegno»; ma l’unico suo record è forse stato quello della brevità: effimero quanto probabilmente nessun altro. Altro record quello del Comune: con cinque milioni ha comperato una villa che, restaurata, vale tre volte tanto.
L’edificio eclettico, progettato in soli due mesi nel 1914 - con dodici sopraporte che mostrano le ville e i palazzi reali nella stanza da letto di Margherita, un delizioso parco anche se ormai ottuso dallo sviluppo edilizio, lo scalone monumentale e una piccola cappella, dove Vittorio Corcos ritrae nel 1922 l’ex sovrana al pian terreno, in una sala trasformata in studio di pittura, e dove ella morì - torna completamente vuoto. Il muro di cinta non è stato rabberciato; i progetti non sono ancora noti: forse, diverrà una “location” per feste e matrimoni. Un’occasione sprecata, e milioni di euro gettati al vento. Per carità: i visitatori non erano troppi: da quindici a ventimila, con un’apertura da aprile a settembre, o su prenotazione. Scarpa dice: «Luogo scomodo da raggiungere, ignoto e nuovo; per fargli pubblicità c’erano solo ventimila euro all’anno; e a Venezia, Ca’ Pesaro, caposaldo architettonico e dell’arte moderna, non ha che sessantacinquemila visitatori l’anno, come la Galleria nazionale dell’Umbria; e a Genova, cinquantamila Palazzo reale, e la metà palazzo Spinola. Alla fine, non c’erano soldi: anche le mostre erano diventate meno». Così, tornano a casa, giusto per citarne alcuni, la Crocifissione di Niccolò di Pietro Gerini, tanti dipinti di Alessandro Magnasco, altri genovesi acquistati per l’occasione, nature morte di Giuseppe Recco, tre Luca Giordano (uno anche grande tre metri), i mobili, le “commodes”, le scrivanie del Settecento, Ribera e Strozzi, tanto altro ancora. Resta «una grossa rabbia dentro: il tempo speso, il lavoro, le speranze che nutrivamo in tanti, il terribile smontaggio di un sogno in due settimane», conclude Annalisa. Il luogo era anche un “unicum”: perché raccontava come si viveva e collezionava, quando la villa era in auge. Già: quando era.




