l'annuncio delle nomine dei direttori dei venti principali musei italiani e le polemiche che l’hanno accompagnato hanno riproposto il tema della
gestione dei musei, sottolineato con forza da quanto il ministro Franceschini ha dichiarato in un’intervista al “Corriere della Sera” il 19 agosto
scorso: «L’Italia ha segnato il passo sulla valorizzazione». Difficile dargli torto, perché è evidente che molti dei musei italiani hanno un
modesto appeal sul pubblico e mostrano un’evidente sproporzione tra l’importanza del patrimonio e, banalmente, il numero dei visitatori. Sarebbe,
tuttavia, sbagliato pensare che sul fronte della valorizzazione siamo all’anno zero. Lo dimostrano i casi di virtuosa gestione di piccoli e grandi
musei che, ingiustamente, non sono al centro dell’attenzione. Il Mao - Museo d’arte orientale di Torino è uno di questi. È nato nel 2008 quando la
Fondazione Torino Musei, l’istituzione che già gestiva la Gam - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, palazzo Madama e la Rocca
medievale, ha accettato la scommessa di aprire un museo in una città che già presentava un’offerta culturale di primo livello, in una realtà,
quella italiana, dove esistevano ormai altri importanti musei di arte orientale (a Roma, Venezia, Genova e Trieste) in un contesto che, peraltro,
non vantava e ancora non vanta una forte tradizione di interesse per l’arte “altra”.
«La città ha accettato questa sfida», ci ha detto
Patrizia Asproni, presidente della fondazione, «perché c’erano tutti i presupposti per l’apertura di un museo del genere. In primo luogo
l’importante nucleo di opere di arte asiatica delle collezioni civiche e di tante collezioni private presenti sul territorio, che meritavano una
presentazione organica e ragionata. A questo dato oggettivo si unisce oggi la lettura dell’evoluzione culturale e sociale in corso: le dimensioni
planetarie raggiunte dal mercato e dalla comunicazione ci chiedono di progredire nella capacità di interagire con culture diverse. Un museo capace
di proporre le creazioni artistiche di diverse civiltà costituisce uno strumento utile per l’apertura del nostro orizzonte, oggi ancora fortemente
etnocentrico, attraverso l’accesso a nuove e alternative categorie estetiche e di pensiero».
Un allestimento che presenta le opere come “arte”
e non come “etnografia”
A questo si può aggiungere che la scommessa della fondazione è stata sostenuta dal Comune e dalla Regione e da sponsor privati (la Compagnia di San Paolo e la Fondazione CRT), che fino all’esplodere della crisi hanno garantito al Mao le risorse necessarie.
Poi, quando sono arrivati i tagli ai bilanci e il museo ha sofferto un calo di visitatori che molti avrebbero considerato “normale”, il Mao ha reagito in due modida un lato ha puntato a un’attività di “audience development” fatta di mostre, eventi, conferenze, visite guidate, serate a tema, dall’altro ha riorganizzato il percorso espositivo concentrando le mostre al piano terra e la collezione permanente al primo piano di palazzo Mazzonis. In particolare, il Mao è riuscito a coniugare l’attenzione alla funzione del museo come luogo di mediazione tra culture diverse - come, per esempio, la Francia fa in modo magistrale al Musée du Quai Branly di Parigi e al MUCEM - Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée di Marsiglia - con un allestimento che presenta le opere come “arte” e non come “etnografia” e, in alcuni casi, riesce a farle dialogare coi paesaggi del XVIII-XIX secolo dipinti sulle pareti di alcune sale del palazzo.
È evidente, però, che anche una grande progettualità senza opere di un certo livello e, non bisogna mai dimenticarlo, senza risorse adeguate non consente di fare molta strada. A questo proposito, occorre dire che le opere del Mao sono di notevole qualità e lo collocano - per quanto fare delle gerarchie possa apparire arbitrario - tra i primi tre musei italiani d’arte orientale. «Effettivamente il Mao», spiega Marco Biscione, il nuovo direttore del museo, «nasce, caso quasi unico in Italia (terra di musei “storici”), da un progetto di selezione qualitativa di opere di altissimo livello storico e artistico, un progetto pensato e realizzato dal suo fondatore e primo direttore, Franco Ricca, senza la cuicaparbietà e passione il museo oggi non esisterebbe. E giustamente il nuovo allestimento ha mantenuto questo taglio, teso a favorire una fruizione estetica delle opere senza alcuna interferenza, anche se nella galleria cinese di arte funeraria c’è una densità di reperti che rappresenta quasi una citazione dell’“affollamento” dei corredi funebri delle tombe».
il “carpe diem” della cultura giapponese, celebre in Occidente
per le opere di Hokusai e di Hiroshige
I risultati di questa trasformazione sono sotto gli occhi di tutti in un percorso che esalta i capolavori del Mao: il cavallo della dinastia cinese Han in terracotta invetriata, il Kongō Rikishi (un guardiano del tempio) in legno dipinto del Giappone, il Budda stante del periodo Gupta dell’India settentrionale e il Budda sul trono dei leoni della Thailandia) assieme a opere di medio livello come la Testa di uomo barbuto (Sileno o Atlante) del Gandhara (antica denominazione dell’odierna regione del Pakistan settentrionale e dell’Afghanistan orientale) o le terrecotte invetriate islamiche o le forme di arte popolare e borghese giapponese. Interessanti da quest’ultimo punto di vista sono le coloratissime stampe dell’Ukiyo-e, il “mondo fluttuante”, il “carpe diem” della cultura giapponese, celebre in Occidente per le opere di Hokusai e di Hiroshige. E qui è opportuno ricordare che nelle collezioni del Mao sono presenti non solo una pregevole copia della Grande onda di Hokusai, ma anche la serie completa del capolavoro di Hiroshige Le cinquantatre stazioni di posta del Tōkaidō che, tra l’altro, in Europa ebbero una notevole influenza sugli impressionisti e sui postimpressionisti, da Degas e Manet fino a Van Gogh e Toulouse-Lautrec.
Sotto gli occhi di tutti, inoltre, ci sono anche i risultati del Mao, che nei primi otto mesi del 2015 è arrivato a oltre 78.500 visitatori. Certo si tratta di piccoli numeri rispetto al Louvre o ai grandi musei nazionali, quello che però è significativo è che questi dati dimostrano che il numero dei visitatori dal 2012 è già raddoppiato e che, se questa tendenza si manterrà, alla fine dell’anno il museo si collocherà al primo posto in Italia tra i musei d’arte orientale e ben davanti a musei tradizionali più grandi e blasonati.



