Il gusto della tv
seduto
In quel caffè
Ludovica Sebregondi
il caffè è il raro caso, forse unico, in cui una bevanda dà il nome a un locale pubblico. Si parlava in origine
di “Bottega del caffè” ma, per contrazione, è sufficiente l’appellativo, “caffè” o “café”, per indicare in tutto il mondo quello che è stato uno dei
principali luoghi di sociabilità dal Settecento al Novecento. Non solo dunque un ambiente in cui gustare l’aromatica bevanda insieme a cioccolata,
tè, liquori e pasticceria, ma uno spazio in cui gli avventori, soprattutto in passato, discutevano di politica, arte e letteratura, un locale in cui
ritrovarsi e passare pomeriggi e serate in gruppo, oppure da soli immersi nella lettura dei giornali messi a disposizione della clientela o persino
a scrivere interi romanzi.
Venezia, Vienna, Parigi, Napoli, Firenze sono le città in cui maggiormente si è consolidata questa “cultura del
caffè”, infuso che utilizza i semi torrefatti e macinati di una pianta originaria dell’Arabia e dello Yemen, ma che sono stati i turchi a far
conoscere al mondo. Già alla fine del Quattrocento a Costantinopoli veniva offerto in apposite botteghe, ma fu solo intorno al 1624 che mercanti
veneziani acquisirono i preziosi chicchi e li destinarono inizialmente alle farmacie. Nel 1683, trasformati in bevanda dall’intenso aroma, vennero
somministrati nella prima “Bottega” aperta in piazza San Marco. In quello stesso anno gli Ottomani assediarono Vienna ma, battuti, si ritirarono
abbandonando nell’accampamento sacchi di caffè tostato: poco dopo fu aperta in città una caffetteria, la prima di una sentita istituzione
socioculturale cittadina.
E proprio in un caffè veneziano di fine Ottocento Alessandro Milesi (1856- 1945), maestro della pittura di genere in
laguna, fa sedere un’elegante signora borghese in un’opera che - con un occhio alla pittura francese - riunisce ritratto, veduta e ambientazione. La
giovane donna, il cui essere sola denota modernità e indipendenza, ha il “Gazzettino di Venezia” aperto sulle ginocchia, mentre regge la tazza con
noncuranza, appoggiandosi languidamente allo schienale della sedia. Un ambiente dai ritmi rallentati, meditativi, in cui la lettura dei quotidiani
ha un ruolo fondamentale, in forte contrasto con l’affollato e convulso caffè delle Giubbe Rosse, dipinto da Baccio Maria Bacci (Firenze 1888-1974).
Un locale fiorentino che ha visto ai propri tavoli riunirsi e discutere la principale “intellighenzia” italiana nel periodo tra le due guerre, uno
dei numerosi caffè letterari, ritrovo degli intellettuali non solo della rivista “Solaria” (nel turbinio di figure si riconoscono Eugenio Montale,
Arturo Loria, Alessandro Bonsanti, Elio Vittorini), in cui continui erano gli scambi di idee, le discussioni culturali ma anche le forti e accese
diatribe politiche, in un difficile momento storico prossimo a quel 10 giugno 1940 quando, con l’entrata in guerra dell’Italia, tutto sarebbe
cambiato.
