Un affresco che metteva a confronto per la prima volta artisti affermati come Richard Long, Anselm Kiefer, Marina Abramovic´, Daniel Buren, Rebecca Horn, Tony Cragg, insieme agli italiani Francesco Clemente, Alighiero Boetti, Giovanni Anselmo ed Enzo Cucchi, con nomi sconosciuti che provenivano da diversi angoli del globo, dal Messico alla Nuova Guinea. Artisti come il cileno Alfredo Jaar, il brasiliano Cildo Meireles o il congolese Chéri Samba, allora ignoti ma oggi protagonisti di primo piano della scena contemporanea. «Abbiamo scelto questo titolo “I maghi della terra” per evitare la parola “arte”, che nel contesto di alcune società non aveva significato. E non volevo incollare un’etichetta occidentale su opere che non sono soltanto funzionali, ma posseggono un’aura di magia, appartengono al campo del sacro»(1). Con queste parole Jean-Hubert Martin sottolinea l’intento di questa prima mostra globale: dimostrare che la scena artistica poteva aprirsi al mondo intero, privilegiando le espressioni e le pratiche vicine a un’idea sciamanica del gesto creativo, legato a valori di spiritualità e ritualità di matrice antropologica.
Così, nello stesso anno che vede da una parte la caduta del muro di Berlino e l’inizio della caduta dell’Unione Sovietica e dall’altra l’avvio delle
ricerche che porteranno il Cern di Ginevra a lanciare nel 1991 il progetto Enquire, primo passo verso il World Wide Web, l’arte si interroga sul
rapporto tra centro e periferie, per interrogarsi sulle nuove geografie della creatività internazionale. La bomba è esplosa, e gli effetti si vedono
molto rapidamente: già alla nona edizione di Documenta, che si tiene a Kassel nel 1992, curata dal belga Jan Hoet, tra gli invitati figura un giovane
artista americano, Matthew Barney, che sarà uno dei protagonisti assoluti dell’arte globale. Le mostre dedicate alle nuove geografie artistiche si
susseguono: dopo Magiciens de la terre la Hayward Gallery di Londra presenta The Other Story. Afro-Asian Artists in Post-War Britain, una collettiva
sull’arte africana e asiatica che riunisce ventiquattro artisti invitati dall’artista-curatore pakistano Rasheed Araeen, mentre tre anni dopo si
inaugura al Museo di Sant’Egidio a Roma Molteplici culture, dove Carolyn Christov-Bakargiev e il sottoscritto avevano invitato venticinque curatori e
sessanta artisti internazionali a rappresentare «il rapporto con l’altro»(2). Nello stesso anno il critico americano Jeffrey Deitch cura la mostra collettiva più significativa dell’ultimo decennio del secolo scorso Post Human,
che inaugura una diversa maniera di concepire lo stesso evento espositivo a partire dal catalogo, concepito come una rivista illustrata, destinata a
raggiungere il grande pubblico, colpito da immagini pop, scioccanti e spettacolari.