Architettura per l'arte
IL GRATTACIELO,
UN FENOMENO MEDIATICO
di Aldo Colonetti
I grattacieli sono diventati una sorta di simbolo internazionale, indipendentemente dall’utilizzo e dalle
necessità urbanistiche. Certamente la verticalità degli edifici fa parte del panorama delle grande città, rappresenta lo status symbol di una
condizione antropologica, un segnale che va oltre la categoria specificamente architettonica. Là dove mancano, il paesaggio appare come un ritorno a
una condizione preindustriale, anche se questa tipologia costruttiva nasce intorno agli anni Ottanta di due secoli fa, a Chicago, dove la
ricostruzione dopo l’incendio del 1871 portò a realizzare edifici sempre più alti, utilizzando strutture a telaio in acciaio intorno ai quattordici
piani con altezze fino a quaranta metri. La rincorsa a raggiungere vette quasi alpine sembra non avere più limiti: oggi, il grattacielo più alto al
mondo è il Burj Khalifa di Dubai (Emirati Arabi Uniti), ottocentoventotto metri, mentre è già in costruzione uno ancora più alto, a Gedda (Arabia
Saudita), si chiamerà Kingdom Tower, un chilometro di altezza, duecento piani. Certamente sarà superato da altri edifici, perché non è più una
questione progettuale: l’architettura, questo tipo di architettura, ovviamente, è sempre più un argomento “muscolare”. Come scrive Renzo Piano: «Non
è tanto importante mettere in campo una disciplina quanto una serie di performance che hanno più il sapore di una gara per vedere chi arriva primo».
Non è un caso il fatto che i due grattacieli più alti al mondo siano dello stesso studio di Chicago, Adrian Smith + Gordon Gill: da questa città,
dove sono nati, si diffonde nel mondo la cultura della performance. Ma ci sono grattacieli e grattacieli, perché non è possibile paragonare questi
ultimi edifici, “senza limiti”, con una serie di architetture che, per ragioni anche legate allo spazio urbano a disposizione, devono dialogare per
forza con la dimensione più orizzontale. Pensiamo al nuovo quartiere di Porta Volta, a Milano, dove, intorno a una piazza di forte simbologia
soprattutto per il nome che porta, cioè Gae Aulenti, la splendida architettura di Cesar Pelli (autore tra l’altro di una “bandiera” architettonica,
le due torri gemelle Petronas Twin Towers a Kuala Lumpur, in Malesia) “parla” in lontananza con altri edifici, soprattutto con il grattacielo
Pirelli di Gio Ponti, ma anche con la Madonnina del duomo. Questo per dire che non sono le dimensioni a trasformare un grattacielo in
un’architettura di qualità; è la cultura, dai dettagli ai materiali, dalle proporzioni alla relazione tra pieni e vuoti, sempre comunque presenti
anche quando le facciate sono superfici piane dove soprattutto il vetro gioca un ruolo fondamentale. Ma, indipendentemente da queste riflessioni,
resta il fatto che questo tipo di edificio rappresenta un simbolo, perché, là dove è stato realizzato, immediatamente quel paese, quella città
diventano membri di un club, una specie di top ten. È la globalizzazione che ti costringe a utilizzare linguaggi che, pur non appartenendo a
una determinata tradizione, consentono poi di entrare nella società della comunicazione globale, perché di fatto, oltre a essere architetture, sono
soprattutto “fenomeni mediatici”. L’utopia della mitica Torre di Babele fa parte dei nostri desideri nascosti, una volta non realizzabili (forse era
meglio!), ora invece sembrano alla portata di tutti. Come scrive Mario Perniola a proposito dei traumi della comunicazione: «L’incessante vociare di
una comunicazione schiacciata su un presente senza senso storico sembra non lasciare alcuna traccia di conoscenza per il futuro», anche se, nel
nostro caso, pur appartenendo i grattacieli a questa dimensione “comunicativa” senza memoria storica, mantengono una propria fisicità con la quale è
necessario dialogare e fare i conti. I grattacieli, per esempio, sono fondamentali per orientare i nostri sguardi nella grande città e ritrovare la
propria strada; come afferma Gillo Dorfles, a proposito della sua Milano che finalmente ospita alcuni grattacieli, «Milano ora possiede finalmente
edifici verticali di dimensioni ragguardevoli, punti di riferimento, non solo importanti simbolicamente, perché “irrobusticono” il tessuto urbano,
lo trasformano, gli danno un’anima contemporanea, senza perdere di vista, comunque, la nostra tradizione orizzontale. Rappresentano delle vere e
proprie bussole per capire dove siamo in un determinato momento». In questo caso, come sempre, Dorfles ha compreso la modernità in tutti i suoi
aspetti, non solo poetici, ma soprattutto pratici e organizzativi; probabilmente la diffusione del grattacielo nel mondo nasce anche da questa
necessità di affrontare il tema dell’orientamento, per cui più sei in alto, maggiore è la capacità di informare e comunicare, da tutti i punti
vista. D’altro canto nel 1956, per una Chicago sempre più rivolta al raggiungimento di altezze da record, Frank Lloyd Wright progettò un
grattacielo, mai realizzato, alto un miglio (1609 metri); una vera e propria lama che progressivamente si restringeva, e non è casuale il fatto che
il primo disegno originario è messo a confronto con una “minuscola” Tour Eiffel.
In una mostra di alcuni anni fa, coordinata da Vittorio
Fagone e ospitata presso la Fondazione Ragghianti di Lucca (una città totalmente orizzontale dove la Torre Guinigi, alta appena quarantaquattro
metri, domina tutta la piana lucchese), dedicata ai grattacieli (Grattacieli. Architetture per il XXI secolo), era possibile confrontare la
crescita progressiva delle altezze, attraverso un diagramma che partiva dal Monadnock di Chicago del 1891 di Burnham & Root, sessantasei metri,
fino appunto al progetto di Wright che appariva irraggiungibile al tempo dell’esposizione, nel 2005. Sono passati pochi anni, la verticalità sembra
non avere più limiti, se non quelli di carattere immaginativo e soprattutto economico. Cosa è cambiato in così poco tempo? Credo che la spinta all’
internazionalizzazione abbia accelerato questa tendenza, come se fosse l’espressione più diretta e più efficace per affermare l’identità, politica
ed economica, di un determinato paese all’interno del processo della globalizzazione, anche se vale sempre un’antica riflessione - siamo nel 1922 -
di Mies van der Rohe che, a proposito di grattacieli, ammoniva che «nel migliore dei casi oggi impressiona elusivamente la loro effettiva grandezza,
anche se queste costruzioni avrebbero potuto essere qualcosa di più di una semplice manifestazione delle nostre possibilità tecniche». C’è ancora
molto da progettare intorno al grattacielo, a patto che, accanto alle possibilità tecnologiche e alle finalità “politiche”, non ci si dimentichi che
parliamo, comunque e sempre, di architettura.

