taxi Teheran (2015), del regista iraniano Jafar Panahi, è pieno di ladri, dal primo personaggio che sale sul taxi fino all’ultimo che vi sale per rubare il film stesso segnalando una circolarità che tematizza la questione. Panahi ruba le sue immagini, così come le autorità gli hanno derubato la facoltà di riprendere: vent’anni di interdizione all’espatrio e a filmare gli sono stati causati dalla partecipazione a manifestazioni antiregime a proposito delle quali Panahi ha dichiarato: «Non intendevo fare denunce politiche, sono sceso in strada durante le manifestazioni perché era mio dovere: non potevo chiudere gli occhi, sono un regista». Ma il regime deruba anche gli iraniani della libertà di vedere film che solo illegalmente sono fatti circolare (il personaggio del trafficante, altro ladro di cinema, che piratando dvd fa conoscere Woody Allen, Kim Ki- Duk e Ceylan, tre diversissime idee di cinema). Il regime deruba poi lo sguardo innocente alla bambina (quasi la coprotagonista del film) che crede di studiare cinema a scuola e invece introietta la necessità di autocensurare il proprio sguardo. Se quello di Panahi è un discorso sulla visione senza censure dei film e sulla libertà che ne è la precondizione (e che ci farebbe bene non dare per scontata nemmeno da noi in Occidente), lo è anche grazie alla esibizione brechtiana dei mezzi tecnici di ripresa, due minuscole camercar, e cioè i meccanismi della finzione. I passeggeri del taxi sono attori, in realtà, e ciò viene detto dopo pochi minuti per dissipare ogni aura di ingenuità e di cinema-verità. Ma non c’è niente di più naturale di ciò che è sapientemente costruito per far deflagrare la realtà ed è ciò che accade per esempio nel bel racconto dell’avvocatessa o nella parabola del ladro barista. iPad, iPhone e webcam sono alleati tecnologici di un racconto che più umanista non si potrebbe e di un grido di libertà e di onestà intellettuale che rivela, oltre che grande dignità, anche una capacità teorica non indifferente. Panahi porta alle estreme conseguenze una poetica che sa trasformare le restrizioni in opportunità, già con successo praticata in Questo non è un film e in Closed Curtain (2011 e 2013). L’Orso d’oro a Berlino 2015 non è solo un omaggio al coraggio ma soprattutto il riconoscimento di una capacità di visione che insieme è politica etica e cinematografica. Perché la cosa strana è che, pur nel suo pauperismo evidente e inevitabile, Panahi realizza un’opera di una complessità visivo-concettuale sorprendente.

