«Il CIelo sI allargò molto
In darglI delle sue grazIe»

Dinanzi alle scene delle Crocifissioni e Deposizioni realizzate da Luca nel primo decennio del Cinquecento si sente un partecipato trasporto, testimonianza di una personale trasmutazione o di un passaggio, dalla sostanza materiale di una perdita alla speranza spirituale.

Come se Cristo fosse un simbolo toccante di tutti i figli morti in giovane età, in un dialogo emozionale tra uomo, natura e Dio: «Dicesi, che essendogli stato ucciso in Cortona un figliuolo che egli amava molto, bellissimo di volto e di persona, Luca così addolorato lo fece spogliare ignudo, e con grandissima costanza d’animo senza piangere o gettar lacrima lo ritrasse, per vedere sempre che volesse, mediante l’opera delle sue mani, quello che la natura gli avea dato e tolto la nimica fortuna»(47). Ma si può realizzare un’opera partecipata senza versare lacrime? Il padre cerca di sopravvivere al dolore per la morte del figlio Antonio(48) attraverso il magistero della sua arte; ritrae le spoglie, per consegnarle almeno alla memoria della “pietas” familiare. questo tentativo di “fare memoria” giunge dopo una lunga campagna di disegni e studi dal vero, alla fine di una serie di posture e di gesti studiati sulla carta, tra lavoro sul fenomeno della materia e traduzione poetica attraverso il segno pittorico. La Deposizione di Orvieto è un’emanazione densa di pathos. Il corpo nudo di Cristo, il poema delle sue carni e il silenzio impresso sul viso, rendono visibile il peso dell’esistenza mortale. Nel Compianto su Cristo morto (1502 circa) del Museo diocesano di Cortona, il figlio di Dio si impone in primo piano con la sua bellezza di derivazione classica, all’interno di un’ambientazione compositiva e pittorica declinata alla fiamminga. Spicca anche la traccia di sangue che testimonia l’efferatezza di un momento terribile, là dove un uomo è stato barbaramente costretto a una morte atroce.


Crocifissione (1502-1505 circa), particolare; Sansepolcro (Arezzo), Museo civico.