Che cosa rende un artista un “outsider”? Prima di tutto il suo essere al di fuori del sistema, quindi non soltanto lontano dai canoni riconosciuti, ma anche dai riflettori della storia e della critica, e dalle dinamiche di mercato. Quasi un paradosso, visto che, al di là delle riscoperte e rivalutazioni post-mortem, per essere riconosciuto e ricordato come tale, un artista in qualche modo deve, se non proprio appartenere o farne saltuariamente parte, almeno agire ai margini di quel sistema che rifiuta o da cui è rifiutato.
Artisti ai margini del sistema dell’arte sono i protagonisti della fiera newyorchese, mai tanto attiva come negli ultimi due anni
Il termine “borderline” è forse più appropriato per definire coloro che operano in una dimensione parallela a quella ufficiale o consolidata, anche
perché mette l’accento sull’aspetto esistenziale, che è l’indubbio motore - oltre che principale causa del fascino - di chi vive e lavora in situazioni
limite di varia natura: sociale, politica, culturale, geografica, psicologica...
Per inglobare al suo interno alcune delle esperienze più interessanti di artisti autodidatti, lontani dai riflettori e non valutabili secondo i criteri
abituali, la storia dell’arte contemporanea ha coniato - giocando, ma anche rivedendo, il concetto di “brutto” in relazione al “bello” - la categoria
estetica dell’Art Brut (l’espressione si deve, come noto, all’artista Jean Dubuffet), che ha avuto una lunga tradizione e molti revival. L’ultimo dei
quali è stato incoraggiato dal successo della 55. Biennale di Venezia (2013), il cui emblema era il Palazzo enciclopedico dell’artista/non-artista
Marino Auriti, progetto meraviglioso ma irrealizzabile conservato all’American Folk Art Museum di New York. Da allora, l’arte cosiddetta “outsider” è
diventata sempre più di moda con grande soddisfazione delle case d’aste e delle fiere, che hanno visto crescere le vendite in tale ambito.