La mostra in corso a Palazzo dei diamanti è la prima in senso assoluto dedicata solo al periodo ferrarese di de Chirico, che va dalla fine di giugno del 1915 alla fine di dicembre del 1918. Sono gli anni di guerra, che egli trascorse senza essere inviato al fronte, ma vedendo nella frenesia distruttiva che aveva preso l’intera Europa la più grande prova della mancanza di logica che governa le cose del mondo.
Pur tributando un tiepido omaggio di facciata al nazionalismo del fratello Alberto Savinio e a quello ancor più estremista degli amici italiani Ardengo
Soffici e Giovanni Papini, de Chirico si rinchiuse nelle sue piccole stanze di scritturale (questa la sua mansione durante il conflitto) e diede vita a
un pittura molto diversa da quella del precedente periodo parigino, tutta concentrata a individuare negli oggetti più comuni le tracce di quella «grande
pazzia, […] che non appare a tutti [e che] esisterà sempre e continuerà a gesticolare e a far dei segni dietro il paravento inesorabile della
materia».
Fatalità, non-senso e mancanza di logica non caratterizzano solo la vita del cosmo e il linguaggio dell’uomo, come indicavano le grandi composizioni
metafisiche parigine, ma si annidano fin nelle ultime pieghe e anfratti della materia, ed è questo il motivo per cui la pittura ferrarese è così
realistica e minuziosa.
È come se Ferrara diventasse per de Chirico la metafora di un mondo misterioso popolato da forze oscure