Studi e riscoperte. 2
Il regno dei morti nell’arte cinese

l’inferno
non è giallo

Un mix di buddismo, confucianesimo e taoismo è il substrato su cui si fonda l’inferno nella tradizione cinese. Un inferno che però è più una sorta di purgatorio. Un luogo di transizione basato su una organizzazione gerarchica ben strutturata con tanto di giudici e guardiani, dove il peccatore, dopo aver subito le più terrificanti atrocità, può raggiungere il nirvana.

Francesco Morena

Anche in Cina esiste l’inferno. E, come quello della tradizione cattolica, anche l’inferno cinese (“diyu”) è un luogo terribile, nel quale si perpetrano le più tremende torture; un vero e proprio campionario di atrocità, in un crescendo di spappolamenti, squartamenti, bolliture, mutilazioni e aberrazioni al limite dell’inverosimile.

Tuttavia, al contrario dell’inferno dantesco nel quale il peccatore è condannato all’eterno supplizio, l’inferno cinese è un luogo di passaggio, una sorta di purgatorio nel quale l’anima del defunto sconta una pena per le azioni malvagie commesse in vita con la consapevolezza di poter infine raggiungere la salvazione. Esso riflette la concezione buddista dell’aldilà, secondo cui tutti gli esseri viventi sono inseriti nel “Saṃsāra”, l’eterno ciclo di nascita, morte e reincarnazione: colui il quale abbia accumulato un cattivo karma, ovvero un fardello di azioni non virtuose, dovrà per effetto rinascere a un livello più basso della scala dell’esistenza. Si allontana così il traguardo del “nirvana”, raggiunto il quale ogni essere ha finalmente interrotto il ciclo delle reincarnazioni per aver infine spezzato ogni legame con l’illusione della mondanità, causa di tutte le sofferenze.

Com’è noto, il buddismo si è originato in India nel VI-V secolo a.C. per poi diffondersi inarrestabile in tutta l’Asia estremo-orientale.