Anche in Cina esiste l’inferno. E, come quello della tradizione cattolica, anche l’inferno cinese (“diyu”) è un luogo terribile, nel quale si perpetrano le più tremende torture; un vero e proprio campionario di atrocità, in un crescendo di spappolamenti, squartamenti, bolliture, mutilazioni e aberrazioni al limite dell’inverosimile.
Tuttavia, al contrario dell’inferno dantesco nel quale il peccatore è condannato all’eterno supplizio, l’inferno cinese è un luogo di passaggio, una
sorta di purgatorio nel quale l’anima del defunto sconta una pena per le azioni malvagie commesse in vita con la consapevolezza di poter infine
raggiungere la salvazione. Esso riflette la concezione buddista dell’aldilà, secondo cui tutti gli esseri viventi sono inseriti nel “Saṃsāra”, l’eterno
ciclo di nascita, morte e reincarnazione: colui il quale abbia accumulato un cattivo karma, ovvero un fardello di azioni non virtuose, dovrà per effetto
rinascere a un livello più basso della scala dell’esistenza. Si allontana così il traguardo del “nirvana”, raggiunto il quale ogni essere ha finalmente
interrotto il ciclo delle reincarnazioni per aver infine spezzato ogni legame con l’illusione della mondanità, causa di tutte le sofferenze.
Com’è noto, il buddismo si è originato in India nel VI-V secolo a.C. per poi diffondersi inarrestabile in tutta l’Asia estremo-orientale.