René Descartes così scrive in una sua corrispondenza: «I selvaggi ritengono che le scimmie, se vogliono, sanno parlare; se non lo fanno è perché non le si costringa a lavorare». Dopo trecento anni lo stesso dubbio sul linguaggio come veicolo di sopraffazione rivive in Isidore Isou, che nel 1946 a Parigi fonda il “lettrismo”, movimento che, seppure ancora sottovalutato, è stato seminale per la cultura francese ed europea della seconda metà del Novecento.
Nell’humus ricchissimo del dopoguerra, tra i nuovi fermenti di Saint-Germain-des-Prés, l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre e l’analisi della quotidianità di Henri Lefebvre, con il surrealismo ormai avviato sul viale del tramonto, il lettrismo si scopre la nuova e l’ultima avanguardia. Come quelle storiche degli inizi del secolo si dota di un programma sistematizzato e di una prassi strategica e si vota, come scrive Isou, «a cambiare la vita e trasformare il mondo». Ultima tra le grandi utopie che lo precedettero, il lettrismo nasce da un periodo di crisi di valori estetici e politici che coinvolgono anche il marxismo, le cui idealità non avevano portato all’auspicato cambiamento sociale. Ecco allora l’appello di Isou - di origine rumena come il dadaista Tristan Tzara cui si sente poeticamente vicino - a un rinnovamento trasformativo che dalle arti si estende alla vita e che si oppone al lavoro alienante e all’ignoranza, mentre promuove l’idea di un uomo nuovo capace di realizzare ogni sua intrinseca e potenziale virtù, come annuncia fin dal 1946 nel primo numero della rivista “La Dictature Lettriste”.

