più spinto, più spigoloso, più incisorio che si sovrappone e talvolta stride a contatto con la evidente pacatezza del fratello più anziano, alle sue anatomie più tornite, ai suoi gesti più larghi ma forse più impacciati e rigidi.
Bartolomeo firmerà quindi da solo i suoi lavori, così come farà Antonio per i suoi ultimi e non troppo felici prodotti: farà eccezione un polittico un po’ particolare, quello di Osimo, nelle Marche, a doppia firma che ha posto non peregrini interrogativi ai critici circa la veridicità di una tale forzata riunificazione dei due uomini e dei due linguaggi: ma si tratta anche di uno degli ultimi dipinti del maggiore dei Vivarini. Siamo infatti oramai nel 1464.
Bartolomeo aveva fatto il suo esordio indipendente nel 1459: la tavola con San Giovanni da Capestrano dipinta per i conti di Celano e destinata al loro castello di Gagliano Aterno, in Abruzzo, oggi al Louvre.
Questo “ritratto” - espressione che vale assai poco in quest’epoca per dipinti di soggetto sacro - è un caposaldo di estrema importanza nella vicenda culturale dei Vivarini e consente di ricomporre il contesto storico e religioso che essi hanno attraversato e dal quale sono stati - e non marginalmente - plasmati.
I nostri artisti non sono stati spettatori disinteressati del travaglio culturale, morale, politico e militare, economico e istituzionale che ha segnato la penisola (e l’Europa intera) nel secondo Quattrocento. Tanto meno risultano estranei al non minor travaglio che ha sconquassato, ben prima della Riforma luterana, la vita della Chiesa di Roma.
Guerre, carestie, precari trattati di pace e aggressioni tra stati e staterelli, rivendicazioni fatte sulla punta delle spade per presunti diritti e imposizioni con la forza di prepotenze politiche, dinastiche, territoriali. Un susseguirsi quindi di saccheggi e devastazioni, distruzione dei raccolti e requisizioni del bestiame e, quasi come conseguenze obbligate, epidemie, miserie, spopolamenti e impoverimenti senza prospettive. Gli splendori dorati di corti umanistiche grandi e piccole, le conquiste culturali dei dotti e dei letterati, la speculazione filosofica, la raffinatezza dei costumi, le riscoperte dei classici, il loro studio e pubblicazione, le conquiste, cioè, delle arti, delle scienze e delle conoscenze hanno quasi in contropartita povertà senza speranza, malattie, sfruttamento, rapacità e usura, disperazione. Non appare meno drammatica la situazione della Chiesa e del papato. Il Grande scisma d’Occidente si conclude tra concili, dispute teologiche e divisioni che attraversano l’intero continente, solo con il concilio di Costanza (1414-1417) dopo un periodo burrascoso e confuso quando due o addirittura tre papi si contrappongono contendendosi la cattedra di Pietro (tutti eletti formalmente in modo legittimo) alla testa di fazioni che annoverano schieramenti di re e imperatori, di potentati e famiglie di antica tradizione romana e forze emergenti sullo scacchiere politico e religioso, lotta che lascerà strascichi pesantissimi alla stessa, già minata, autorevolezza del papato.
Ma anche la Chiesa nelle sue strutture e nella sua articolazione e organizzazione sul territorio attraversa una crisi gravissima che è soprattutto morale e disciplinare: gli ordini religiosi (anche quelli di recente fondazione come i francescani, i domenicani, i serviti e, in generale, i mendicanti) come i più antichi ordini monastici (come le varie famiglie benedettine) versano in condizioni di degrado assai pesanti. Corruzione, abbandono o rifiuto delle regole, disprezzo per la tradizione e l’imitazione della vita ascetica dei fondatori, ignoranza, avidità di denaro e potere, concubinato, traffico di benefici e vendita di indulgenze sono i tratti caratteristici di ampi strati di ecclesiastici e religiosi. I secoli XIV e XV vedono allungarsi l’ombra minacciosa di una fine possibile e ingloriosa per la Chiesa di Roma: da una parte le infinite dispute teologiche e le lotte per il potere centrale nella curia papale; in basso, esempi di vita dissoluta indisciplinata corrotta.
