Sul lungotevere Flaminio di Roma, all’angolo con piazza Gentile da Fabriano, non c’è un palazzo sfortunato, bensì una paradigmatica cartina di tornasole; sette piani d’uno stabile che illuminano, chiariscono, dimostrano svariate faccende. Cerchiamo di capire che cosa c’è dietro le macerie, dietro il crollo notturno (avvenuto tra il 21 e il 22 gennaio scorsi) dei tre ultimi piani di un palazzo signorile nella capitale, e cosa ancora presumibilmente accadrà. Partiamo, come direbbe Leonardo Sciascia, dal contesto. Zona Flaminio; da dove Cristina, la convertita ex regina di Svezia (abdicò ai suoi poteri nel 1654), entra nella città il 20 dicembre 1655 dopo un viaggio per l’Europa con un seguito di duecentocinquantacinque persone e duecentoquarantasette cavalli, passando sotto la porta di piazza del Popolo appositamente rifatta da Gian Lorenzo Bernini. All’epoca la zona era campagna. Qui vicino, il 7 novembre 1925, Francesco De Pinedo ammara con il suo idrovolante sul Tevere, dopo la celebre trasvolata: cinquantacinquemila chilometri fino a Sidney, sette mesi in aria. L’edificio in parte crollato non c’era ancora, pur se già previsto. Il piano regolatore del 1909, voluto dal sindaco Ernesto Nathan e opera di Edmondo Sanjust di Teulada (poi senatore del regno), che per primo regolamenta l’espansione fuori dalle mura aureliane, disegna infatti, con il vertice proprio in piazza Gentile da Fabriano, un piccolo “tridente”. È palesemente ispirato a quello del centro storico (in piazza del Popolo, con via del Corso, via del Babuino e via di Ripetta); i tre rami sono viale Pinturicchio, via Guido Reni e viale del Vignola. Tra piazza Gentile da Fabriano e il lungotevere c’è l’edificio crollato.

