Nel mondo antico, seppure non sinonimi, i termini che indicano l’occhio e il volto erano di fatto intercambiabili: come fulcro del volto, l’occhio lo rappresenta nella sua totalità e come parte del corpo è insieme «“videns” e “visa”: cioè, che non solo vede ma su cui anche si affissano reciprocamente gli sguardi quando due individui si trovano l’uno dinanzi all’altro, per stabilire tra di loro un primo contatto»(1). Nell’epica omerica è proprio la divinità femminile a essere definita spesso per le modalità dello sguardo: ha occhi splendenti e luminosi, chiari o scuri in base alle circostanze, sorride e guarda da lontano il mondo con sguardo onniveggente, e la sua natura è talmente al di sopra di quella umana che può rivelarsi solo sotto false apparenze o attraverso veli o cortine di nubi: impossibile per un mortale sollevare impunemente gli occhi verso una dea.
Uscendo dalla sfera del divino, da sempre gli artisti hanno ricercato il segreto dello sguardo femminile e per esempio nella pittura olandese del Seicento ci si riferiva con il termine “tronie” al volto, ma anche all’espressione, una sorta di ritratto di resa psicologica cui si applicarono molti pittori sperimentando nuove tecniche (Rubens, Van Dyck, Rembrandt...) e tra questi Vermeer con la Ragazza con orecchino di perla: «Uno sguardo carico di fascino e mistero, la bocca socchiusa, le labbra umide, un atteggiamento naturale - quasi un’istantanea -, il lampo di luce della perla nel buio»(2).
Da sempre gli artisti
hanno ricercato il segreto
dello sguardo femminile
La giovane ruota il collo, imponendo agli occhi il massimo grado di angolazione e abbandonando poi lo sguardo in uno spazio trasognato, mentre la postura potrebbe rimandare a un contesto amoroso ed essere giustificata da un intenso interesse suscitato da un uomo; da qui un meccanismo proiettivo di riservata seduzione che rende lo spettatore vigile e consapevole.
L’opera di Vermeer sottolinea dunque il forte potere dello sguardo nella trasmissione di un messaggio d’amore: nell’Alcibiade (132e-133a)
Platone scriveva che «quando guardiamo negli occhi qualcuno che è di fronte a noi, il nostro viso si riflette in ciò che chiamiamo la pupilla come
in uno specchio: chi vi si guarda vi vede la sua immagine», e nel Fedro (255d) applicava tale visione proprio all’ambito amoroso: «Nel suo amante,
come in uno specchio, è se stesso che ama […], avendo così un contro amore che è un’immagine riflessa dell’amore», concetto ribadito nel far
derivare il nome di Eros dal verbo “eisreín” (scorrere dentro) perché è caratteristica precipua dell’amore penetrare nell’anima dall’esterno
passando attraverso gli occhi. Nell’antica come nella più moderna rappresentazione della dinamica dell’innamoramento, l’occhio determina lo sguardo
seduttore che raggiunge l’anima e la infiamma: così l’organo della vista gioca un ruolo insieme attivo e passivo, configurandosi sia come l’arco che
scaglia il dardo d’amore che come il bersaglio verso cui è diretto(3).
