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La riforma del Mibact

la riforma riformata

Le novità riguardo a musei e soprintendenze previste dal ministro Franceschini vedono sostenitori e detrattori. Ma in realtà cosa è successo? Tentiamo qui di fare il punto sulle strutture che gestiscono tutela e valorizzazione, sui recenti accorpamenti e i problemi irrisolti, sul dibattito in corso e l’eterna questione della scarsità di fondi.

Fabio Isman

In quarant’anni, dal 1975 quando Giovanni Spadolini l’ha voluto, il ministero dei Beni culturali ha mutato nome tre o quattro volte, ed è stato riformato dieci. Negli ultimi tempi, quasi ogni ministro che l’ha diretto ne ha cambiato la struttura. Quello in carica, Dario Franceschini, in pochi mesi si è ripetuto, riformando la propria riforma che non era ancora andata nemmeno a regime: «Tumultuosa sovrapposizione», spiega Paolo Liverani, già dirigente dei Musei vaticani e ora docente all’Università di Firenze. Se prima ha abolito le direzioni regionali e variato la geografia delle soprintendenze, creando quelle “miste” e istituendo venti “supermusei” autonomi, poi ha realizzato soprintendenze uniche in tutto il paese, abolendo quelle archeologiche, mutandone il numero e la distribuzione territoriale, concedendo autonomia ad altri dieci musei e aree di antichità. Nessuna riforma è mai stata tanto contestata e discussa: lo vedremo. Ma prima, uno degli esiti più immediati che intanto produce è questo: una rivista telefona a una soprintendenza; le servono alcune immagini. Le rispondono che esistono, «però non sappiamo quando potremo prendere in carico la richiesta: forse tra un mese, forse tra sette o otto»; dipende «dal personale che riceveremo e da quando gli uffici, dopo i loro cambiamenti, si saranno sistemati». 

La cancellazione delle diciassette soprintendenze archeologiche finora esistenti accresce la diffusione sul territorio di questi uffici dirigenziali, unificati, che nella penisola ora diventano trentanove, più quelli speciali per il Colosseo e Pompei. Però, l’archeologia ne costituirà soltanto una sezione. 

Il dibattito sulla soprintendenza unica (che stavolta è mancato: la riforma-bis è nata senza interpellare i tecnici, e nemmeno il Consiglio nazionale; solo dopo averla annunciata il ministro ha visto una delegazione di archeologi) ha avuto degli antecedenti in Andrea Carandini, che la proponeva già da responsabile del settore per l’allora Pci, negli archeologi Daniele Manacorda e Giuliano Volpe, presidente del Consiglio nazionale, che l’aveva invano già suggerita al ministro, per il primo stadio della riforma. Ora, con l’istituzione dei trenta “supermusei” e di diciassette “poli museali” nelle regioni, la valorizzazione viene separata dalla tutela, rimasta ai soprintendenti. Quello per le province di Lucca e Massa Carrara, Luigi Ficacci, racconta: 

«Nessuno di noi se lo aspettava, poiché usciamo da una recente riforma; già la prima aveva provocato dei problemi, poiché abbiamo perso il personale dei musei; ora siamo appena diciassette in tutto, con la prospetSpativa di diventare presto tredici»; il piano di riorganizzazione del ministero ne prevede quarantuno. E come, in tutt’Italia, si possa fare tutela senza nemmeno riuscire a recarsi sui luoghi da tutelare, francamente non si sa; una circolare del 26 febbraio indica infatti quanto è disponibile per le missioni del 2016 delle ex soprintendenze archeologiche: 18mila euro per tutta la penisola. Sette regioni devono cavarsela con 500 a testa; le altre con 1.500; soltanto la Sardegna con 2.500; e il Veneto supera ogni primato poiché non gli spetta nemmeno un centesimo. Così, non si va molto lontano; né, soprattutto, si va a compiere dei sopralluoghi sugli scavi a rischio, o sui monumenti in pericolo.


Pompei (sede di soprintendenza speciale).


Reggia di Caserta (divenuta istituto autonomo).