Si può ragionevolmente dubitare che lo stile dell’artista nella seconda metà degli anni Venti sia “surrealista” in un qualsiasi senso definito e concreto del termine: in esso non troviamo traccia di “automatismi psichici” - al contrario: Miró procede con estrema circospezione e cautela, e dipinge non di rado facendo riferimento a studi preliminari e abbozzi - mentre il riferimento contemporaneo più saldo non è a un qualche artista del movimento ma senza dubbio a Picasso. Inoltre: la commistione tra ideogramma e figura, come già visto, è avviata da tempo e non riflette certo fascinazioni improvvise. È vero tuttavia che la progressiva rarefazione di riferimenti a geografie affettive o a tradizioni consolidate riflette una propensione condivisa, nella cerchia surrealista, per la “tabula rasa” (data non a caso al 1921, al primo periodo parigino, la rottura di Miró con l’amico pittore Enric Cristòfor Ricart i Nin, neotradizionalista e regionalista catalano avverso agli sperimentalismi parigini).
Il Ritratto di Madame K. (1924) è uno dei numerosi ritratti finzionali (o meglio pseudoritratti) che Miró esegue come per interrogarsi sul problema
dello “stile” e della “figura”. Come dipingere oggi? Come e cosa “rappresentare”? Queste le sue domande. Il quadro prende l’aspetto di una verifica
sperimentale. L’artista saggia la validità di questa o quella ipotesi figurativa - vale a dire la validità di questo o quello “stile”, questo o quel
modello di “realtà” e figura. Il procedimento si fa più astratto che non in precedenza. Supponiamo pure che esista una modella, anche se faremmo meglio
a dubitarne. È tuttavia evidente che l’artista sceglie di distanziarsi quanto più possibile dalle apparenze ordinarie della figura per scomporre,
separare, sostituire. La testa diviene un manichino, la chioma si contrae nei tentacoli di una piovra.