A suo avviso le arti figurative costituivano una formidabile testimonianza di questa impasse: il tumultuoso avvicendarsi di “novità”, superamenti o “ismi” non faceva che rendere più visibile la «distruttiva trasformazione di tutta la cultura» occidentale, e cioè la perdita di un saldo radicamento «in valori etici e metafisici supremi».
Per quanto distanti possano apparirci i termini della questione, le domande che Huizinga si poneva nel 1935 riflettono uno smarrimento al tempo
condiviso. Al pari di storici dell’arte di grande reputazione, come Wind o Panofsky, o di intellettuali “apartitici” alla Julien Benda, Huizinga temeva
che il culto dell’arte per l’arte e il rifiuto di una norma estetica comune avrebbe aperto la strada a speculazioni di ogni genere, indotte dal
«commercio, dalla pubblicità e dalla mobilitazione» politico-ideologica. Le recinzioni che avevano protetto l’ambito estetico dagli ambiti pratici o
strumentali, questa la sua tesi, stavano rapidamente venendo meno: che ne sarebbe stato della tradizionale autonomia dell’“arte” e della “cultura”?
