tra eclettismo
e azzardo sperimentale

In un saggio apparso a metà degli anni Trenta del secolo scorso, dal titolo La crisi della civiltà, l’illustre storico olandese Johan Huizinga osservava che l’epoca contemporanea sembrava caratterizzarsi per un’inedita mancanza o “impotenza di stile”.

A suo avviso le arti figurative costituivano una formidabile testimonianza di questa impasse: il tumultuoso avvicendarsi di “novità”, superamenti o “ismi” non faceva che rendere più visibile la «distruttiva trasformazione di tutta la cultura» occidentale, e cioè la perdita di un saldo radicamento «in valori etici e metafisici supremi».

Per quanto distanti possano apparirci i termini della questione, le domande che Huizinga si poneva nel 1935 riflettono uno smarrimento al tempo condiviso. Al pari di storici dell’arte di grande reputazione, come Wind o Panofsky, o di intellettuali “apartitici” alla Julien Benda, Huizinga temeva che il culto dell’arte per l’arte e il rifiuto di una norma estetica comune avrebbe aperto la strada a speculazioni di ogni genere, indotte dal «commercio, dalla pubblicità e dalla mobilitazione» politico-ideologica. Le recinzioni che avevano protetto l’ambito estetico dagli ambiti pratici o strumentali, questa la sua tesi, stavano rapidamente venendo meno: che ne sarebbe stato della tradizionale autonomia dell’“arte” e della “cultura”?


Il campo arato (1923-1924); New York, Solomon R. Guggenheim Museum.