Dapprima semplifica l’immagine trasformandola in un minimo progetto. Poi si sbarazza del pennello e del tubetto di colore per ridurre il proprio impegno a quello, feroce e sommario, del carpentiere e dell’imbullettatore. Nascono così manichini elementari, come nella serie delle Ballerine spagnole. Collage di bitume, sabbia, gesso e fil di ferro. E infine spogli rilievi in legno e metallo che rimandano al più ruvido (anti) artigianato Dada-costruttivista.
È difficile ritrovare la figura nei due collage dal medesimo titolo eseguiti a Parigi tra il tardo inverno e la primavera del 1928. Dov’è la “ballerina
spagnola”? Nel primo caso vediamo solo l’immagine di una scarpetta tratta da una rivista di moda; due linee ad angolo - presumiamo siano le gambe; una
linea verticale - la “figura” intera; e un punto di colore. Nient’altro che il kit di montaggio di una “ballerina”. Nel secondo caso la riduzione si
spinge oltre. L’intera figura è ricondotta a una spilla da cappello e a una piuma, omaggio alla leggerezza della danzatrice oppure (chissà?)
all’inafferrabile psiche femminile - l’“eterno femminino” dei poeti. Nell’uno e nell’altro caso Miró sembra esortarci a qualcosa come a un estremo
“fai-da-te” immaginativo: sta a noi completare l’immagine per divenirne a tutti gli effetti coautori. A commento della propria stringatezza Miró
inserisce nel primo collage un riquadro di carta smeriglio: il suo modo di tracciare “tipi” o profili umani, suggerisce, non è meno abrasivo della carta
con cui levighiamo le superfici.

