Friedrich Nietzsche scrive che l’arte nasce dall’unione di un grande realismo e di una grande irrealtà. Forse potremmo affermare che Edward Hopper li possedesse intensamente entrambi, se lui stesso dichiarò che i suoi quadri erano «costruiti con tanta semplicità e onestà, senza ricorrere agli artifici dell’arte, da dare quasi lo shock della realtà stessa»(1).
Qual è il mistero per cui la luce del sole che illumina una parete si trasforma in un evento? O come spiegare che teatri senza pubblico, stanze con viaggiatori malinconici, una strada deserta, persone su una veranda che guardano in lontananza o verso il nulla catturino in modo quasi ipnotico l’attenzione dello spettatore?
Edward Hopper - artista dalla personalità complessa e particolare, quasi in bilico tra fatalismo, distacco e curiosità, maestro di un silenzio che
invita a penetrare l’interiorità degli altri, poeta tra i più elusivi nonostante la sua apparenza di solidità, garante di una verità con la massima
convinzione e insieme con il massimo dubbio, sicuro della realtà dei fatti eppure poco convinto del loro valore, avaro di parole - lascia che i quadri
parlino per lui(2). Pur consapevole della propria “onestà” nella rappresentazione artistica, è altresì convinto della difficoltà - se non impossibilità - di dipingere
senza mentire: Hopper ritiene che, poiché il destino dell’artista è fallire, non rimane che farlo nel modo migliore possibile, proprio come affermava
Samuel Beckett: «Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio».