XX secolo. 1
Hopper: l’arte di guardare dentro

le vite
degli altri

Molte opere di Edward Hopper sembrano spiare intimità inconsapevoli dello sguardo altrui. Espressione di solitudini esistenziali che sono quelle dell’artista stesso.

Rossana Mugellesi, Stefania Landucci

Friedrich Nietzsche scrive che l’arte nasce dall’unione di un grande realismo e di una grande irrealtà. Forse potremmo affermare che Edward Hopper li possedesse intensamente entrambi, se lui stesso dichiarò che i suoi quadri erano «costruiti con tanta semplicità e onestà, senza ricorrere agli artifici dell’arte, da dare quasi lo shock della realtà stessa»(1).

Qual è il mistero per cui la luce del sole che illumina una parete si trasforma in un evento? O come spiegare che teatri senza pubblico, stanze con viaggiatori malinconici, una strada deserta, persone su una veranda che guardano in lontananza o verso il nulla catturino in modo quasi ipnotico l’attenzione dello spettatore?

Edward Hopper - artista dalla personalità complessa e particolare, quasi in bilico tra fatalismo, distacco e curiosità, maestro di un silenzio che invita a penetrare l’interiorità degli altri, poeta tra i più elusivi nonostante la sua apparenza di solidità, garante di una verità con la massima convinzione e insieme con il massimo dubbio, sicuro della realtà dei fatti eppure poco convinto del loro valore, avaro di parole - lascia che i quadri parlino per lui(2). Pur consapevole della propria “onestà” nella rappresentazione artistica, è altresì convinto della difficoltà - se non impossibilità - di dipingere senza mentire: Hopper ritiene che, poiché il destino dell’artista è fallire, non rimane che farlo nel modo migliore possibile, proprio come affermava Samuel Beckett: «Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio».