Più la storia è maledetta, più la pittura ci appare affascinante e ricca di sottintesi. Siamo tutti un po’ cialtroni, noi “art addicted”, e ci piace guardare nelle pieghe del quadro, negli sguardi, cercando di individuare segreti e presagi. Fingiamo di essere sensibili, colti, ma poi leggiamo le biografie, da Caravaggio a Van Gogh, e ci emozioniamo per i delitti e per gli eccessi. Quando l’acquaragia, per intenderci, si mischia all’odore del sangue. Come non inserire in questa élite Amrita Sher-Gil (30 gennaio 1913 - 5 dicembre 1941), una pittrice indiana nata da padre del Punjab, Umrao Singh Sher-Gil Majithia, aristocratico sikh, fotografo per passione, e da una madre ebrea-ungherese, cantante lirica.
Nota anche come la Frida Kahlo indiana - grazie pure alla riscoperta effettuata in occasione del centenario della nascita - Amrita Sher-Gil è oggi
considerata forse la più importante pittrice asiatica del XX secolo, con una influenza pari ai maestri del Bengala, tale da esercitare un ascendente
anche su mostri sacri come Syed Haider Raza e Arpita Singh. Diciamo subito che era bellissima e che un film sulla sua vita sarebbe sicuramente vincente,
ma anche molto costoso, a iniziare dalle location. Amrita nasce infatti a Budapest, ancora ricca città imperiale, e a otto anni si trasferisce in India.
È intelligente, vivace e dimostra subito predisposizione per la musica e per il disegno, e il gioco è fatto: a soli undici anni (sic!) viene mandata a
studiare pittura a Firenze, poi dopo un breve ritorno in India, si reca a Parigi dove frequenta l’Académie de la Grande Chaumière e quindi l’Ecole des
Beaux-Arts.