GLI ANNI
FIORENTINI

«Vissi sin dall’infanzia in mezzo all’arte perché figlio e nipote di scultori che al loro tempo ebbero fama e la meritarono».

Vissi a Milano e poi a Firenze dove passai i più begli anni della giovinezza e fu in questa città che cominciai a dipingere vicino a Cabianca, Signorini, Abbati, Sernesi ecc. Poi ritornai a Venezia donde mi recai di nuovo a Firenze che lasciai definitivamente per venire a Parigi che mi avvinse e che mi ritiene da più di trentatré anni».

L’11 marzo 1908 Federico Zandomeneghi inviava questa concisa, essenziale autobiografia a Vittorio Pica, perché il critico e letterato napoletano tenesse conto delle imprecisioni pubblicate nel suo libro sugli Impressionisti francesi allora stampato. Non c’era una nota polemica né di risentimento nello scritto del pittore, ma ne filtrava il dispiacere di non essere stato presentato in maniera sufficientemente adeguata a illustrarne le esperienze artistiche, e i risultati raggiunti, tanto più in un testo rivolto al pubblico italiano al quale egli era pressoché ignoto. Se infatti a quella data Zandomeneghi, ormai alle soglie dei settant’anni, godeva a Parigi, e da tempo, di una discreta fama, in Italia la sua arte era sconosciuta se non a un ristretto numero di intellettuali e di artisti toscani e veneti con i quali aveva mantenuto i contatti andati comunque sempre più diradandosi con il trascorrere degli anni. Non è un caso, dunque, se nell’aprile 1914 egli, scrivendo nuovamente della sua vita a Pica che curava l’allestimento di una sala singola dedicata al pittore nell’ambito dell’XI Biennale veneziana, ritesseva le proprie vicende parigine con l’intento di chiarire la sua situazione pittorica e umana da quando, giunto in Francia nel giugno 1874, non aveva più lasciato «la sua seconda patria», né mai più esposto opere in Italia. All’indomani dell’arrivo a Parigi - scriveva il pittore a Pica - «mi trovai nel gruppo dei cosiddetti Impressionisti e non Impressionisti. Guardando, ascoltando, discutendo, mi trasformai e come tutti gli altri da Pissarro a Degas da Manet a Renoir la mia vita artistica fu una successione di infinite evoluzioni che non si analizzano che non si spiegano che non dipendono dall’ambiente da circostanze particolari, e delle quali nessuno può rendersi conto esattamente. Quanto alla tecnica - parola molto vaga - quella da me adottata è mia, tutta mia e non la presi in prestito da nessuno».