Ben nota è la passione che l’imperatore Federico II di Svevia aveva per la caccia, in particolare quella col falcone. Egli stesso diceva: «Un giorno senza falconeria è un giorno perso». Forse meno conosciuta è la splendida opera che collaborò a realizzare riguardo proprio all’attività venatoria: De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli).
In assoluto era il suo passatempo preferito; ma era anche un’esibizione compiaciuta del proprio prestigio, oltre a un’occasione per conoscere la natura
e dominarla come Gran falconiere, metafora di un potere che rispecchiava le sue ambizioni di egemonia imperiale. In un’ottica più pragmatica, la caccia
era pure un modo per avere contatti con persone di alto rango; questa attività, infatti, era molto costosa, appannaggio di una cerchia ristretta della
nobiltà: un falco addestrato poteva costare quasi quanto un intero podere.
Il manoscritto è un trattato d’osservazione rivolto al mondo fenomenico, in sintonia con il pensiero federiciano di rappresentare le cose quali sono:
«Manifestare ea quae sunt sicut sunt». Il testo è lontano dai bestiari dell’epoca, enciclopedie zoologiche in cui i dati naturalistici erano intrisi di
mitologia, teologia e superstizione. Federico si procurò trattati di ornitologia e caccia e, grazie ai suoi contatti con l’Oriente - già tra i suoi
precettori ricordiamo un imam islamico - poté approfondire le conoscenze sulla falconeria araba, caratterizzata da tecniche più sofisticate di quelle
praticate in Occidente. Maturò così l’idea di scrivere di proprio pugno, o almeno collaborare alla stesura di un codice che rappresentasse una complessa
rivisitazione dei precedenti trattati, come quelli arabi fatti tradurre in latino dallo stesso imperatore, tra cui il De scientia venandi per aves del
siriano Teodoro di Antiochia.