La Scatola Brillo di Warhol è una serie serigrafica stampata su legno (1964): il “readymade” propriamente non c’è, anche se ne restano le apparenze. Una “scultura” di dimensioni contenute, di elementare forma cubica, è manipolata in modo da simulare la scatola fatta a macchina. Accade qui come nei piccoli bronzi dipinti di Johns, appena descritti: quale funambolica inversione tra “arti liberali” e oggetto industriale! Non si tratta, né per Johns né per Warhol, di una piatta apologia della “banalità”, come pure ritengono autorevoli critici alla Arthur Danto (1924- 2013); ma di un umoristico negoziato tra banalità e ricercatezza. Nella consuetudine di pittori e scultori di tradizione modernista il cubo è strettamente associato allo studio di nudo, o “accademia”, e introduce a un’autointerrogazione figurativa sui problemi della “forma” e dello “stile”. Troviamo “cubi” (o parallelepipedi) in Picasso, De Chirico (1888-1978) e Carrà (1881-1966) metafisici; e anche lo sgabello della duchampiana Ruota di bicicletta (1913) è una variazione sul tema. Troviamo un enigmatico cubo nelle Tre trappole per Medea di Rauschenberg (1959). Ne troviamo innumerevoli nelle sculture-installazioni di minimalisti come Robert Morris (1931). Nel lessico storicoartistico novecentesco il termine “cubo” si associa all’impresa più celebre, il cubismo di Picasso e Braque, alla cui celebrazione il Museum of Modern Art di New York appare istituzionalmente dedicato ancora alla data in cui Warhol presenta le sue scatole. Ecco dunque che abbiamo radunato molti elementi utili all’interpretazione. La Scatola Brillo è una parodia del dramma modernista - «come dipingere un volto o una figura? come modellare? come realizzare un’opera d’arte? » - e del suo pathos a tratti magniloquente. Rinvia dispettosa al già fatto - la grafica pubblicitaria, il packaging industriale - e si fa beffe delle luttuose difficoltà della “Grande Arte”.