Sono persuaso che solo ricostruendo lo specifico sfondo storico-artistico su cui Warhol si staglia giungeremo a comprenderne la figura in modo persuasivo e circostanziato. Scopriremo che le innumerevoli Marilyn Monroe non hanno in origine caratteri meramente illustrativi o aneddotici; e che le lattine di zuppa fanno riferimento alla biografia dell’artista o alla storia dell’arte più che alle abitudini alimentari degli americani. Neppure il partito preso dell’immagine seriale “fatta male in modo giusto”, che caratterizza la Factory warholiana nei primi anni, giunge inatteso o isolato. Non si tratta solo, per Warhol, di simulare l’impersonalità dell’esecuzione, ma di riconoscere un limite intrinseco al controllo che l’autore può esercitare sul significato delle proprie opere. Duchamp insegna agli artisti americani del secondo dopoguerra, direttamente o più spesso attraverso la mediazione di John Cage (1912-1992), musicista e performer, che la definizione pubblica del “senso” di un’immagine è in piccola o grande parte affidata al caso. Lungi dal costituire un problema, la circostanza invita invece ad accogliere la casualità tra le componenti dinamiche del processo creativo. Cosa, se non un’immagine in apparenza trascurata e casuale, ci incoraggia a completare inventivamente il “significato”? Se considerata in relazione a quella che lo storico dell’arte angloaustriaco Ernst Gombrich (1909-2001) chiama «la parte dello spettatore », una crosta non è meno feconda del capolavoro, al contrario. Con la sua perfezione, questo può infatti dissuadere l’osservatore dal prendere parte al libero gioco delle associazioni.
La tradizione
dada-concettuaLe
In questo mio breve saggio cercherò di presentare Warhol prestando attenzione ai procedimenti cui l’artista ricorre, e che lo inseriscono in una precisa tradizione dada e concettuale.