«Non sono un grande intellettuale. Devo sperimentare le cose su me stesso, sia fisicamente sia emotivamente. Imparo le cose attraverso la fisicità, attraverso l’esperienza del corpo, perché ho un corpo pensante. Prima di tutto c’è la connessione tra cervello, cuore e testicoli. Poi, molto dopo, arriva la traduzione intellettuale. Sono essenzialmente un artista molto semplice e appassionato, che crea per necessità. La mia arte è una celebrazione della vita».
Così Jan Fabre (Anversa, 1958), artista tra i più poliedrici del panorama internazionale - pittore, scultore, performer, regista teatrale - descrive se stesso presentando la retrospettiva Knight of Despair / Warrior of Beauty, in corso fino al 9 aprile all’Ermitage. «Una mostra storica», la definisce il direttore del museo Mikhail Pëtrovskij: oltre duecento opere, di cui un centinaio realizzate per l’occasione, sono esposte in un percorso a volte cronologico, più spesso tematico, che si articola tra i diversi edifici negli spazi della collezione permanente, dal cortile principale alle sale dell’arte delle Fiandre, per poi proseguire nel palazzo dello Stato maggiore, negli ambienti recentemente ristrutturati e riallestiti dallo studio Oma di Rem Koolhaas.
L’opera che accoglie i visitatori, The man who measures the clouds, una figura in bronzo con le sembianze dell’artista, nella recente mostra fiorentina era impegnata a paragonare la propria limitata ma lucente umanità con le proporzioni armoniose del paesaggio urbano rinascimentale; ora si erge, piccola ma sfolgorante, all’ingresso della corte del Palazzo d’inverno di Caterina II, a rendere misurabile la grandezza di un passato così imponente, a permettere il confronto tra la contemporaneità e una tradizione dagli esiti eccelsi.
Ma è soprattutto con i suoi conterranei, con i grandi maestri fiamminghi tra Quattro e Seicento, che Fabre ha voluto entrare in relazione. «Quando abbiamo iniziato a progettare questa mostra, Pëtrovskij e Ozerkov mi hanno dato carta bianca, ma io ho voluto esporre in questa sezione, quella dell’arte fiamminga, perché è come se ci fossi nato dentro».
Rubens, Snyders, Jordaens, Van Dyck: la raccolta di opere fiamminghe dell’Ermitage è impressionante, per numero e per qualità, ma per Fabre è quasi come non spostarsi dalla sua città natale, Anversa. «Essenzialmente sono un artista molto provinciale. Tutto quello che c’è nel mio lavoro si può trovare entro cinquecento metri di distanza da dove sto. Sono nato vicino al Rubenshuis. Il mio bisnonno Jean-Henri Fabre era entomologo, e mi ha ispirato per il mio lavoro con gli insetti. Mio padre disegnava le piante al giardino botanico e mi ha educato al disegno, mia madre mi leggeva ogni giorno la Bibbia e i grandi classici della poesia e del teatro. Non sono un artista che guarda al panorama internazionale. Il mio lavoro ha le sue radici nella tradizione del piccolo paese in cui sono nato, e forse per questo ha un significato universale».

