Ha visto finalmente una degna conclusione la lunga e accidentata vicenda della grande tavola vasariana raffigurante l’Ultima cena, la più recente opera restaurata tra le sopravvissute all’alluvione di Firenze del 1966.
In occasione del cinquantenario di quell’evento (lo scorso 4 novembre), l’opera realizzata da Giorgio Vasari nel 1546 è stata nuovamente esposta al pubblico dopo un oblio durato, appunto, cinquant’anni e collocata nell’illustre cornice del refettorio del Museo dell’Opera di Santa Croce. Una ricollocazione che ha del miracoloso se si considera che la grande tavola nel corso dei secoli è stata danneggiata da diverse alluvioni, l’ultima delle quali, quella appunto del 1966, sembrava esserle stata fatale.
L’Ultima cena è un’immensa opera pittorica costituita da cinque tavole (per un totale di diciannove assi) in legno di pioppo. L’elemento che per primo colpisce lo spettatore è la grandiosità: non è facile trovare in ambito toscano, infatti, pitture su legno di così ingenti dimensioni (6,60 x 2,62 metri). L’opera era stata commissionata da suor Faustina di Vitello Vitelli per il refettorio del convento (poi carcere oggi dismesso) delle Murate a Firenze. Nel 1808, a seguito delle soppressioni napoleoniche, fu trasferita nella basilica di Santa Croce e posizionata sull’altare della cappella Castellani a sostituire una Natività dell’artista Giuliano Bugiardini. Nel 1958 figura invece tra le opere della VI sala del Museo di Santa Croce, cui era stata riconsegnata dopo un restauro iniziato nel 1956. L’Ultima cena, infatti, era già stata danneggiata dalle alluvioni del 1547, 1557 e 1740, subito dopo le quali si era provveduto a riparare i danni che l’acqua aveva provocato sulla grande tavola, come si apprende anche grazie all’iscrizione al centro del dipinto, sul bordo della tovaglia, in corrispondenza delle figure di Cristo e san Giovanni.
Una ricollocazione che ha del miracoloso se si considera che la grande tavola nel corso dei secoli è stata danneggiata da diverse alluvioni
Ma tutti gli sforzi precedenti risultarono vani di fronte alla furia dell’Arno all’alba del 4 novembre 1966. Intorno alle 6.50, infatti, l’acqua ruppe la spalletta di piazza Cavalleggeri investendo la Biblioteca nazionale e Santa Croce. L’Ultima cena rimase come molte altre opere immersa nel fango e nella nafta per diverse ore e quando i restauratori - su tutti è doveroso ricordare Ugo Procacci e Umberto Baldini - poterono avvicinarsi per ispezionare e catalogare l’opera, tutto sembrava perduto. La tavola fu sottoposta a una velinatura integrale della superficie pittorica ancora bagnata, operazione che ha contribuito a prevenire ulteriori perdite di colore; poi però ci si arrese di fronte all’evidente gravità delle condizioni in cui versava il dipinto. L’Ultima cena fu quindi spostata da un deposito all’altro senza alcun controllo microclimatico.
Solo recentemente l’Opificio delle pietre dure ha deciso di tentare di nuovo il restauro. Le analisi diagnostiche hanno rilevato numerosi danni al
supporto, causati sia dal naturale invecchiamento del legno, sia dalla proliferazione di insetti xilofagi e dall’umidità.

